Diffamazione a mezzo stampa, sul banco degli imputati ora anche i ‘lettori’. La moda inaugurata da Dispenza, il cliente di Montante e sceriffo-podestà che non sa cosa sia un Comune, che pure ha amministrato, e perseguita non solo i giornalisti liberi che informano i cittadini sui fatti del Comune, ma anche i loro lettori: colpevoli di mostrare in pubblico o apprezzare gli articoli non agiografici. E la Procura? D’accordo con lui. Questo è il ribaltamento e la demolizione di un pilastro della nostra Costituzione: la libertà di stampa è innanzitutto libertà di diffusione di notizie e opinioni, anche di quelle ‘querelate’. Principii essenziali fondativi della democrazia e della Repubblica messi alla ‘sbarra’ da processi surreali ora in corsia di rallentamento, ma dove io sono imputato non lascerò (è in mio potere) che la prescrizione possa arrestare la verità
Questa testata, e in modo particolare questa rubrica, da tempo pongono all’attenzione generale e alla riflessione pubblica il tema della libertà di stampa (in ultimo qui).
Da quando è stato pubblicato il primo articolo (qui) in tanti ci scrivono sia per esprimere opinioni critiche su una questione di così complessa importanza, sia per chiedere notizie sui procedimenti penali in corso che mi vedono imputato. Ringrazio ovviamente per l’attenzione e le attestazioni di solidarietà, ben sapendo che l’una e le altre valgono molto più di fatti ed esperienze personali. Sarebbe ben poca cosa la vicenda di un processo se le sue implicazioni riguardassero solo le parti in causa e non avessero l’intrinseca vocazione ad uscire dall’aula giudiziaria per parlare a tutta la società.
Tale vocazione nei procedimenti che mi riguardano è incontrastabile perché alla sbarra non ci sono solo persone: io innanzitutto, imputato, come autore o come direttore responsabile di testate giornalistiche, di diffamazione a mezzo stampa, in alcuni casi in compagnia di cittadini ‘colpevoli’ solo di avere letto e diffuso attraverso i social network miei articoli, servizi d’informazione, commenti tv.
Alla sbarra c’è un principio che non solo ha rango costituzionale, ma ha forza ulteriore per essere uno dei pilastri della Carta ed ha, altresì, quella derivante dall’essere, con pochissimi altri articoli, fondamento essenziale, ineludibile, costitutivo, della natura democratica dello Stato.
E’ con questo spirito che ho scritto di tali processi, come di tanti altri che non mi riguardano personalmente ma hanno la stessa valenza (di recente qui), ed è con tale consapevolezza che adesso voglio rispondere almeno ad alcune delle numerose domande di ulteriori notizie che evidentemente nei vari articoli non ho avuto modo di riferire, e nel contempo chiarire alcuni aspetti delle vicende affrontate.
Un primo aspetto, veramente singolare e inquietante, come accennato prima, è il fatto di trovarmi imputato, in almeno due casi, insieme ad altri, semplici ‘lettori’ come si sarebbe detto un tempo, quando i giornali di carta rappresentavano quasi totalmente il mondo dell’informazione e la loro diffusione era il mezzo attraverso il quale potevano essere commessi, secondo le leggi vigenti ancora oggi immutate nella loro formulazione, i reati appunto ‘a mezzo stampa’.
I due casi riguardano procedimenti penali scaturiti da querele promosse dallo stesso soggetto, l’amministrazione straordinaria del Comune di Vittoria in carica per tre anni e tre mesi, dal 2 agosto 2018 al 27 ottobre 2021, e di fatto ‘comandata’ da una persona, Filippo Dispenza che i lettori di ‘In Sicilia Report’ ben conoscono. E’ il poliziotto cresciuto in carriera e in potere durante il sodalizio con Antonio Calogero Montante (il più noto impostore antimafia, imputato in vari processi, in uno già condannato da Tribunale e Corte d’Appello per associazione per delinquere, inoltre indagato per concorso in associazione mafiosa), nominato prefetto da Angelino Alfano (il ministro che a Montante mai avrebbe potuto dire di no e che gli era istituzionalmente genuflesso come sancito nella sentenza di un tribunale della Repubblica) quindi, appena in pensione per limiti d’età, spedito a Vittoria ad amministrare il Comune.
Ma come i nostri lettori ben sanno, Dispenza non aveva ben chiaro cosa fosse un Comune e in cosa consistesse il suo mandato sicchè per 39 mesi ha tentato di soggiogare la città, riducendola ad un ‘Dominato’ o ad una caserma dei nostri tempi, comunque ignorando che perfino dentro una caserma vigono regole anche per un ‘capo unto dal Signore’ – in questo caso il … signor Montante forte dei servigi ministeriali di Alfano – come lui credeva di essere o, nel senso della testa oggetto dell’unzione, come il capo, la testa apapunto, che riteneva, o ritiene, di possedere.
Questo deficit di chiarezza, o di conoscenza, della vita delle istituzioni in uno Stato democratico, e del mandato a lui conferito, lo ha portato a perseguitare i cittadini e la comunità per conto della quale e nel cui interesse avrebbe dovuto agire e alla quale avrebbe dovuto rispondere: un po’ novello ‘sceriffo’ e un po’ – attingendo ad uno dei sonetti più famosi di Giuseppe Gioacchino Belli – <<… Re cche ddar palazzo/mannò ffora a li popoli st’editto:/Io so io, e vvoi nun zete un cazzo>> da cui la caricatura cinematografica del marchese del Grillo.
Le vicende sono ben note sicchè i nostri lettori sanno che l’arma sempre in pugno dello sceriffo Dispenza (qui) è stata quella della querela, a spese dei cittadini-contribuenti, con gli attrezzi tipici del poliziotto rampante, più di status e di potere, che di servizio.
Ed ecco alcuni dei colpi ‘proibiti’ partiti da quell’arma: le querele rivolte non solo contro il bersaglio diretto, ovvero il giornalista autore di articoli e servizi e, semmai, se persona diversa, il direttore responsabile della testata; ma anche i suoi lettori o alcuni di loro.
Questo, incredibilmente, ha fatto Dispenza, a spese, ricordiamolo, dei cittadini i cui interessi avrebbe dovuto amministrare con ‘disciplina e onore’ secondo il dettato della Costituzione.
E in questo furore persecutorio da sindrome compulsiva, mosso dalla natura scenica del personaggio in cui s’è calato (un po’ padrone della città, un po’ pistolero che spara colpi anche tutt’intorno all’obiettivo per ostentare il suo bagaglio d’armi) ha compiuto un’azione che, comunque la si osservi, ha dell’incredibile: la querela ai ‘lettori’ in quanto tali.
Io qui non voglio discutere nel merito l’azione giudiziaria da lui promossa contro tali, vari, lettori. L’ho già fatto, basterà adesso ricordare e ribadire che si tratta di azioni infondate, gratuite, arbitrarie, totalmente abusive, intimidatorie, eversive della natura democratica di una società e delle sue istituzioni, frutto di una concezione per la quale il sedicente servitore dello Stato si appropria indebitamente, dentro un suo bizzarro ordine mentale che non ha alcuna residenza nel nostro ordinamento, di poteri e pretese che non gli competono.
Ritengo utile piuttosto, sollecitato da chi ci segue, esaminare, al di là del merito proprio di ogni singolo caso, l’enormità di tale estensione degli ‘spari’, a colpi di querela per diffamazione a mezzo stampa, verso i lettori della stampa, oltre che verso i giornalisti autori e direttori.
In almeno due procedimenti che mi vedono imputato come autore e come direttore di articoli e commenti non graditi a Dispenza (contenenti notizie rigorosamente vere e considerazioni critiche più che legittime ed anzi doverose) ad essere stati querelati sono anche i lettori. Si, dobbiamo definirli tali perché si tratta di lettori – di giornali telematici o di fruitori di contenuti giornalistici audiovisivi trasmessi da emittenti tv e portali web – che in tutto e per tutto nella nuova realtà tecnologica possiamo equiparare a coloro che una volta erano gli acquirenti di giornali in edicola.
Dispenza infatti in almeno due casi (che conosco come parte in causa, ma chissà quanti altri ve ne sono!) ha querelato me e, nello stesso atto, anche cittadini che non avevano alcun legame, nesso o rapporto con la mia attività oggetto di querela se non l’essere stati semplicemente lettori o spettatori alcuni dei quali, peraltro non tutti, in qualche caso possano solo avere espresso sui social apprezzamento o condivisione di tali articoli o di qualche elemento in essi contenuto.
Solo per fare un esempio, ecco il commento scritto da uno di tali lettori in un post di mera condivisione di uno dei miei articoli a sua volta da me diffuso anche sul mio profilo fb: <<magistrale pezzo giornalistico tratto dalla pagina facebook di un galantuomo. Uno degli ultimi. Angelo Di Natale eccellente giornalista indipendente>>. Chiarito che il giudizio fin troppo generoso nei miei confronti nulla rileva rispetto al tema in oggetto, l’esempio ci è utile solo per toccare con mano l’enormità dell’ ‘inquisizione’ di stampo medievale che ispira la querela e l’esercizio dell’azione penale. E’ a tutti evidente come non può esservi diffamazione nei confonti di alcuno nelle parole del lettore che si limitano a lodare, semmai, un giornalista: possono diventare tali parole un reato, in relazione al contenuto del servizio giornalistico che semplicemente, in modo del tutto generico e senz’alcuna citazione, apprezzano? Se anche, per assurdo, quel servizio fosse pieno di notizie diffamatorie, mai e poi mai nel nostro ordinamento democratico chi si limiti genericamente a condividerlo può vedersi attribuire specificamente quelle singole notizie. Chi ha deciso cosa esattamente quel lettore abbia inteso lodare di quel servizio? E’ lampante come l’accusa criminalizzante rivolta a quel lettore, ‘colpevole’ solo di quelle parole, sia un atto di calunnia.
Questi sono i termini del tema che ho posto e risulta difficilissimo credere come una pretesa tanto arbitraria ed arrogante come la querela di Dispenza abbia potuto trovare accoglienza nell’autorità giudiziaria inquirente.
Per tornare al livello generale della questione, poiché le leggi non sono cambiate rispetto al vecchio giornalismo di carta, è come se tali querele fossero state rivolte a persone ‘colpevoli’ dei seguenti atti: entrare in edicola, comprare un giornale, aprirlo, sfogliarlo, posare la propria attenzione verso uno o più articoli, esprimere su di essi, implicitamente o esplicitamente, il proprio interesse al punto da suggerire anche ad altri analoga attenzione, magari mostrando l’articolo a chi in quel momento si trovasse in edicola e a qualche avventore o passante.
Per avere compiuto questi atti o semplicemente uno di essi – e per ciò solo – questi semplici lettori sono stati querelati da Dispenza come ‘complici’ del giornalista autore dell’articolo a suo avviso diffamatorio. Tralasciamo qui, avendola più volte affrontata, l’assurdità di querele che sono veri e propri atti di calunnia che prima o poi un giudice – magari senza bisogno d’andare fino a … Berlino (!) – dovrà esaminare.
Ora ci preme focalizzare un’altra assurdità, analoga a quella propria dei regimi dittatoriali che impediscono, combattono e puniscono all’origine la diffusione delle informazioni non controllate. La fattispecie che stiamo esaminando è persino molto più grave ed allarmante di quella che fu la criminalizzazione, tipicamente fascista, dell’attività di volantinaggio: criminalizzazione sopravvissuta nei primi anni della Repubblica e prontamente stroncata, alla prima occasione, dalla Corte costituzionale.
Tale assurdità, nell’Italia costituzionale e repubblicana del terzo millennio, è l’incredibile pretesa dello sceriffo col colpo sempre in canna di considerare corresponsabile di una presunta diffamazione a mezzo stampa (comunque tale solo nella natura riflessa del suo abito mentale) i semplici lettori dell’articolo denunciato. Tali sono, oggi, nell’era del web e dei social, coloro che ‘condividono’ un contenuto, con o senza un proprio commento. Sono lettori che segnalano ad altri lettori un articolo. E ciò non ha nulla a che vedere con le eventuali responsabilità (qualora mai ve ne fossero) dei giornalisti autori e direttori di testate sottoposte alla legge sulla stampa.
Tanta assurdità se è spiegabile nella sfera mentale, elaborata da fervore compulsivo ignaro dei limiti di realtà, delle pretese dell’amministratore comunale che si credeva sceriffo o podestà, lo è molto meno, ed anzi non lo è affatto, nell’azione dell’autorità giudiziaria che ha avallato, fatto propria e portato avanti tale impostazione.
L’incredibile querela che colpisce, come corresponsabili dello stesso reato, i lettori insieme al giornalista autore e/o direttore, è diventata automaticamente, per impulso della magistratura inquirente, citazione a giudizio dei soggetti così identificati e accomunati e pertanto imputati dello stesso identico reato.
Perché ci si possa rendere conto dell’abnormità e della pericolosità dell’operazione, è utile leggere nella sua interezza l’articolo 21 della Costituzione e, soprattutto, focalizzare il secondo e terzo dei sei commi complessivi. Infatti è ben noto il primo, anche per la bellezza e la forza della sua enunciazione (<<Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione>>), molto meno gli altri. Ecco il secondo: <<La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure>>. Il terzo precisa: <<Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili>>.
Le due norme ci dicono, con nitida chiarezza, che la libertà di stampa non può essere compressa in alcun modo, con autorizzazioni o censure, e che il sequestro è un atto eccezionale esclusivamente nei casi rigorosamente previsti, con tanto di ‘riserva di legge e di giurisdizione’ contro ogni tentazione estensiva. Ho voluto richiamare queste norme, non solo costituzionali ma basilari della parte più rigida della nostra Carta, perché esse spazzano via alla radice ogni pretesa di limitare la circolazione della stampa e di ogni pensiero che chiunque voglia liberamente manifestare <<con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione>>.
E il tipo particolarissimo di querela del poliziotto-podestà, con la sua brama accecante di punire autori e lettori allo stesso modo e nello stesso processo – acriticamente assunta da una ‘Procura della Repubblica’ (la stessa Repubblica che si regge sulla Costituzione richiamata) – cos’è se non la pretesa di limitare la circolazione della stampa?
Se anche, per assurdo, nei casi in questione ci fosse il fumus della diffamazione, o addirittura – doppiamente per assurdo – il reato evidente, come potrebbe mai essere ammessa, nel nostro quadro di principi costituzionali così netti e incontrovertibili, l’estensione della responsabilità ai semplici lettori ‘colpevoli’ unicamente degli atti che abbiamo descritto, senza che ciò, nella totale negazione e nel ribaltamento dei valori costituzionali, operi pesantemente sulla libertà di manifestazione del pensiero e sulla libera circolazione della stampa, di fatto impedendola alla radice attraverso la pretesa, con tutto il suo carico di intimidazione deterrente, di punire chi tenga in mano e magari si azzardi a mostrare un articolo ‘querelabile’, ma non sequestrato e non sequestrabile?
La querela-tipo dello sceriffo-podestà – e molto di più la supina acquiescenza ad essa prestata da una Procura della Repubblica – sono un fatto senza precedenti, già comunque dagli stessi reiterato, di gravissimo allarme sociale per la carica attentatrice ad uno dei principi costituzionali più importanti, preziosi ed essenziali all’ordine democratico, che siffatte azioni penali rischiano di evertere.
Tutto ciò non c’entra nulla con la perseguibilità, in via di principio, di reati a mezzo stampa commessi anche da cittadini non giornalisti sul web e con il mezzo, oggi molto diffuso e alla portata di tutti, dei social. Se un cittadino scrive e diffonde con questi strumenti qualcosa che possa giustificare l’esercizio dell’azione penale per diffamazione a mezzo stampa, egli sarà imputato in quanto autore della presunta diffamazione che – è bene ribadirlo – è un reato tipicamente doloso: per intenderci lo commette solo chi abbia intenzione di diffamare qualcuno, non chi, semplicemente, incorra in qualche errore se in buona fede e avendo utilizzato la normale diligenza del caso.
Il problema – enorme – che qui sto segnalando riguarda invece i ‘lettori’ perseguiti solo per avere mostrato ad altri (a ciò equivale il gesto della ‘condivisione’ sui social) un testo o un audiovisivo che un querelante ritenga diffamatorio. Ma quel lettore non ha e non può mai avere alcuna responsabilità: diversamente sarebbe posto in una condizione perfino più gravosa del direttore responsabile di una testata, perciò appunto ‘responsabile’ per omesso controllo, che è tale proprio perché – giornalista iscritto all’Albo professionale – egli debba esperire con rigore l’attività vigile e puntuale richiesta dalla sua professione e dal mandato volontariamente assunto, secondo la legge sulla stampa, che ha specifico e apposito rilievo legale applicabile al giornalista-direttore responsabile e a nessun altro. E in ogni caso tale sua responsabilità è meno grave di quella dell’autore di un articolo che alla fine di un processo venga ritenuto diffamatorio.
Qui invece siamo dinanzi ad un semplice lettore che, in quanto tale, e in quanto a sua volta diffusore dello scritto o dell’audiovisivo che hanno suscitato il suo interesse, lo mostri ad altri. Ma che c’entra tutto ciò con il reato di diffamazione che è un reato doloso, commesso solo dal suo autore e, al massimo, anche dal direttore responsabile nei termini e nei limiti dei doveri di controllo? Doveri che – lo comprede anche un bambino – non possono certo gravare sui lettori perchè, altrimenti, avremmo la totale, radicale, negazione della libertà di stampa, che è innanzitutto libertà di diffusione e che, quindi, sarebbe già all’origine limitata, impedita, censurata, criminalizzata.
Ipotizzare la perseguibilità della semplice ‘condivisione’, ovvero del suggerimento di lettura ad altri, significa da una parte stravolgere le norme del nostro ordinamento fin dai suoi fondamenti costituzionali e dall’altro attentare all’art. 21 della Costituzione in ogni suo comma e, soprattutto, in quello sul divieto di autorizzazione e censura le quali, in questo modo, surrettiziamente vengono frapposte nel circuito di diffusione della stampa addirittura attribuendone il potere di farlo ad un querelante nell’atto di accomunare tali lettori-diffusori ai giornalisti autori o direttori della testata.
Che un semplice lettore possa essere incriminato solo in quanto tale e per avere mostrato ad altri l’articolo da lui letto è esattamente l’opposto di ciò che la nostra Costituzione postula in tema di libertà di stampa che è libertà di manifestazione del pensiero, libertà d’informarsi e d’informare, libertà di fare circolare ogni notizia o opinione fino a quando, nei casi del tutto eccezionali e gravissimi previsti, non intervenga un sequestro che in questo caso impedirebbe comunque al lettore di potere leggere e quindi di diffondere. Fino a quel momento è del tutto arbitrario il potere – che s’è assunto lo sceriffo-podestà Dispenza, incredibilmente spalleggiato e sostenuto dalla Procura della Repubblica di Ragusa – di perseguire il lettore-diffusore. Ciò è proprio di un contesto dominato dalla censura, come quella introdotta in Italia dalle leggi fasciste e vigente durante il ventennio del regime che controllava sistematicamente la comunicazione anche per le strade e nelle case (oggi i social) e la impediva per volere di qualunque agente, poliziotto o prefetto tutte le volte che un gerarca, cui essi erano obbedienti, la ritenesse pericolosa per quel sistema di potere assoluto, dispotico, oppressivo.
Altra cosa è se il lettore-diffusore scriva o esprima oralmente e diffonda un suo commento. In questo caso egli è semplicemente autore del suo scritto e della sua opinione e valgono per lui le norme generali che lo riguardano esclusivamente in quanto autore. Ma nulla gli si potrà mai contestare in relazione allo scritto o al commento di cui sia solo lettore o, al massimo, lettore-diffusore come (l’immagine è sempre valida e appropriata) chi prenda un giornale in edicola e lo mostri a qualcuno o, nell’era del web, lo condivida su facebook.
L’atto di limitare, colpire, perseguire e criminalizzare la diffusione è tipico delle dittature come accaduto in quella fascista nella realtà italiana e come oggi accade in Corea del Nord, Iran ed altri paesi sottoposti ad un potere dispotico, oppressivo e illiberale. La nostra Costituzione ne è l’opposto e non può consentire alcuna operazione del tipo di quella concepita dalla mente del poliziotto-podestà e sostenuta da una Procura della Repubblica.
Se, nei due casi di mia diretta conoscenza che mi vedono imputato, qualcuno dei lettori o telespettatori insieme a me querelati, avesse diffuso un proprio commento ritenuto diffamatorio, la querela – e la successiva azione penale – non potrebbero che riguardarli separatamente, unicamente in quanto autori, quindi totalmente estranei ad ogni responsabilità relativa ai servizi giornalistici della testata da me diretta.
Averli querelati con lo stesso unico atto (da parte di Dispenza) e averli imputati (da parte della Procura) insieme a me autore e direttore responsabile di testata giornalistica, costituisce un attentato alla libertà di stampa che è anche, e soprattutto, libertà di diffusione e di circolazione di notizie ed opinioni, con il solo limite del sequestro nei casi eccezionali in cui possa essere disposto, come abbiamo visto poc’anzi. Mentre qualcuno querela me, giornalista-autore, non può nel contempo colpire chi abbia la sola ‘colpa’ di leggere e diffondere il mio articolo.
Se lo sceriffo poliziotto si è ritenuto diffamato dalle parole scritte in modo originale, quindi quali autori, da alcuni cittadini casualmente anche lettori o telespettatori dei servizi della tv da me diretta, avrebbe dovuto promuovere nei loro confronti querela separata, esclusivamente per i contenuti in ipotesi diffamatori di cui siano effettivamente autori e non per quelli di cui invece siano lettori-diffusori.
Avere violato e stravolto questo principio elementare è un allarme gravissimo per tutta la carica – insita in tale violazione e in tale stravolgimento – sovversiva dell’ordinamento democratico della nostra Repubblica.
A ciò bisogna aggiungere, almeno in un caso, l’errore incredibile commesso dalla Procura che in un procedimento attribuisce ad uno dei ‘lettori-diffusori’ incriminati la ‘pubblicazione di scritti’ in realtà del tutto inesistenti in quanto egli si è limitato, come emerso nel processo, semplicemente a condividere, cioè a mostrare ad altri, il mio commento editoriale trasmesso da emittente tv di cui ero anche direttore responsabile. In questo caso, sbagliando clamorosamente, il pubblico ministero non solo accomuna giornalisti e lettori, autori e semplici diffusori confondendo pericolosamente le responsabilità, ma attribuisce al lettore propri commenti in realtà inesistenti.
Chiarito questo aspetto, solo brevi cenni agli altri.
Da tempo i processi che mi vedono imputato non fanno passi avanti. Ciò per una serie di rinvii concessi dal Tribunale su apposite richieste: mai avanzate da me, ma dalle parti civili e dal pubblico ministero. Il che, al netto di eventuali casualità, rappresenta certamente una stranezza. In genere sono gli imputati a cercare di tirarla per le lunghe, e ben sappiamo quanti processi penali ogni giorno vengano cancellati dalla prescrizione: da 120 a 160 mila l’anno, qualcosa come 5 milioni nel sistema processuale accusatorio vigente dal 1989. Io da imputato non solo non ho mai chiesto, né, anche involontariamente, provocato un rinvio ma al contrario ho contribuito a velocizzare i processi come quando chiesi ed ottenni di essere sottoposto ad esame, previsto invece successivamente, al posto di testi che non si erano presentati in aula in quell’udienza.
Del resto ho più volte pubblicamente affermato che da imputato io rinuncio sempre alla prescrizione: l’ho già fatto quando è stato necessario; lo farò ancora se questa evenienza dovesse farsi concreta, in qualunque grado di giudizio. E ciò perché, se qualcuno mi trascina in Tribunale, pretendo una sentenza. Siccome peraltro queste esperienze mi capitano in ragione del mio lavoro di giornalista e del diritto di critica che, anche da semplice cittadino, sono solito esercitare, assolutamente certo di avere sempre scritto e detto la verità e di avere commentato i fatti nel rispetto dei limiti propri del nostro impianto costituzionale, so che i processi che mi riguardano sono prove salutari non già per i miei interessi di imputato parte in causa, ma per lo stato della nostra democrazia e per l’effettività dei valori fondativi della nostra Costituzione. Io peraltro sono contrario comunque alla prescrizione che rappresenta il fallimento della giustizia. E ciò non perchè l’imputato non abbia diritto ad una durata ragionevole dei processi, ma perchè uno Stato serio soddisfa tale diritto definendo ogni procedimento con un giudicato irrevocabile nei tempi convenuti. Altrimenti si beffano le vittime del reato, si ingannano gli onesti e si vessano i contribuenti condannati a sostenere i costi assurdi di milioni di processi buttati al macero. Quando un procedimento si apre occorre sempre giungere ad un punto di conclusione secondo giustizia. Ma questo è un altro tema: torno subito alla questione che qui ci impegna.
In un’udienza (processo su querela di Libera che vorrebbe oscurare le notizie sui suoi rapporti con Montante) il pubblico ministero Fabio D’Anna si battè con fervore e con una certa tensione nervosa contro la riproposizione della citazione dei testi Sigfrido Ranucci e Paolo Mondani, in quel caso assenti. La mia difesa ribadì la necessità del contributo alla verità da parte dei due giornalisti di Report che, poi, nuovamente citati, si sono presentati. In quel momento ebbi la sensazione che il pm D’Anna avesse fretta di chiudere quel processo. Per questo poi sono rimasto sorpreso quando prima la parte civile Vincenza Rando, legale di Libera e a lungo numero due di Ciotti, e poi lo stesso procuratore hanno chiesto il rinvio delle due udienze successive.
Circostanza ripetutasi, sempre su richiesta dello stesso D’Anna, anche in un procedimento scaturito da una delle tante querele di Dispenza e che mi vede imputato insieme ad alcuni ‘lettori’ o ‘spettatori’ de La Prima Tv.
Un altro processo ancora, sempre su querela di Dispenza, presenta anomalie inquietanti. Mi risulta che esso abbia come oggetto due miei articoli (qui e qui) pubblicati su ‘I Siciliani Giovani’ e concernenti l’attività di Dispenza in seno all’amministrazione straordinaria del Comune di Vittoria, nonché la sua carriera e i suoi rapporti con Montante. Tale processo vede con me altre persone imputate, responsabili di ‘lettura’ o ‘condivisione’. L’aspetto che deve preoccupare tutte le persone oneste animate da sincero sentimento democratico è che tali ‘lettori’ siano stati, insieme a me, accusati di appartenere ad un’organizzazione criminale avente il fine di impedire all’amministrazione comunale straordinaria retta dallo sceriffo-podestà l’esercizio delle sue funzioni istituzionali. Una fragorosa risata avrebbe dovuto seppellire il quadro dipinto, con tratti disturbati, dal suo geniale autore a magistrati della Repubblica. E invece, dopo due anni e mezzo d’indagini (sic!) ecco, incorniciato in un ben processo!
La prova? Il corpo del reato?
I due miei articoli sopra richiamati pubblicati da ‘I Siciliani Giovani’ e la condivisione da parte dei lettori in quanto tali, ritenuti appartenenti insieme a me ad un’associazione per delinquere. Lo ha affermato Dispenza, nel corso di un altro processo dinanzi al Tribunale di Ragusa, spiegando che egli, per quei due articoli, ritenne di denunciare non solo me ma anche diversi ‘lettori’ ‘membri’ insieme a me della ‘cosca malavitosa’, tant’è che rivolse tale denuncia alla Procura distrettuale di Catania competente per i reati di criminalità organizzata e di grave allarme sociale.
In seguito a tale denuncia Dispenza ha rivendicato (qui) l’innalzamento al massimo livello delle misure di protezione personale in quanto minacciato da questa pericolosa associazione criminale composta da me, dal direttore responsabile de ‘I Siciliani Giovani’ Riccardo Orioles, dal sindaco di Vittoria Francesco Aiello all’epoca semplice cittadino colpevole di avere ‘condiviso’ gli articoli su fb, così come l’assessore comunale di Vittoria Cesare Campailla anch’egli allora semplice cittadino, il direttore generale della Srr (Società regolamentazione rifiuti) di Ragusa Fabio Ferreri ed un avvocato, Salvatore Messina.
Il caso si commenta da solo, semmai va dato atto che se Dispenza ha congegnato una prospettazione di questo tipo, qualche organismo dello Stato gli ha concesso la scorta-super e un pubblico ministero ha portato avanti l’inchiesta giunta all’avviso di conclusione delle indagini preliminari il quale, com’è noto, presuppone la decisione di richiesta di rinvio a giudizio o la citazione a giudizio.
In questo caso si registrano richieste di proroga delle indagini da parte del Gip all’ultima delle quali la difesa di uno deli indagati, Aiello, ha presentato opposizione cui è seguita l’emissione dell’avviso di conclusione delle indagini che è anticamera del giudizio.
Un altro processo che mi riguarda non riesce a partire. Scaturisce da una querela per diffamazione a mezzo stampa presentata nei miei confronti, quale direttore de La Prima Tv, da Fabio Cantarella, politico catanese della Lega, ex assessore della Giunta-Pogliese. ‘Corpo del reato’ un servizio de La Prima Tv del 2018 avente per tema i ‘riciclati’ della Lega e i tanti personaggi saliti in Sicilia sul carro (o ‘Carroccio’) vincente e con alle spalle le storie, spesso poco edificanti, più disparate. Sul conto di tutti, compreso Cantarella, La Prima Tv riferì notizie vere, di pubblico interesse e nel pieno rispetto dei limiti propri del diritto di cronaca e di critica.
Dopo tre anni dal decreto di rinvio a giudizio emesso dal Gup, e dalla successiva apertura del dibattimento, questo processo non riesce di fatto a dare il via all’istruttoria dibattimentale per fattori riconducibili al querelante, a suoi impedimenti e alle udienze conseguentemente saltate. In pratica si deve ancora cominciare e sono già passati quattro anni e mezzo dei sei complessivi in cui scatterebbe la prescrizione.
Ma se qualcuna delle parti interessate non lo sapesse, lo ribadisco ancora una volta: io alla prescrizione, se e quando dovesse maturare prima di una sentenza irrevocabile, rinuncerei sempre e comunque: nessuno, nella mia veste d’imputato, può privarmi di tale facoltà che è una libertà ma, per me, anche un diritto-dovere. Se io mi avvalgo delle prerogative del diritto di cronaca e di critica mi ritengo tenuto a combattere a viso aperto non per la mia assoluzione, ma per la salvezza del valore costituzionale minacciato. E ciò richiede una sentenza: un nulla di fatto per prescrizione sarebbe rinuncia alla verità ed equivarrebbe a mettere sullo stesso piano la pretesa di bavaglio esercitata dal querelante e la verità che, quando di pubblico interesse, deve invece stagliarsi limpida nell’orizzonte della conoscenza comune.
Tra queste due cose non può esservi pareggio.