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Dispenza, amico e cliente di Montante, ha una scorta super perchè minacciato da un sindaco, da un assessore, da un giornalista, da un dirigente pubblico e da un avvocato. Il giornalista sono io e qui voglio rendere piena ‘confessione’

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L’udienza, tenutasi il 21 marzo scorso dinanzi al Tribunale di Ragusa, del processo per diffamazione nei confronti di Cesare Campailla assessore del Comune di Vittoria, scaturito da una querela – una delle tante – promosse dalla commissione straordinaria dello stesso Comune in carica fino al 27 ottobre scorso, è rilevante per almeno due motivi.

Il primo riguarda il contenuto dell’esame dibattimentale di Filippo Dispenza, teste indicato dall’accusa e capo di quella commissione il cui operato, in ben 39 mesi, si segnala per pochi fatti essenziali: una sostanziale continuità con atti precedenti per i quali è stato deciso, per infiltrazioni mafiose, lo scioglimento degli organi comunali democraticamente eletti; una totale incapacità non solo di migliorare, ma perfino di mantenere le condizioni – le quali hanno subìto infatti un grave regresso – in cui versava la città al tempo dello scioglimento; una persecuzione contro tanti cittadini colpevoli solo, come già chiarito, di essere tali e quindi di occuparsi della città, di segnalare problemi, di chiedere soluzioni, di avanzare istanze ed esprimere critiche: ‘peccato’ (pardon! reato) quest’ultimo, di ‘lesa maiestà’ agli occhi di Dispenza, il poliziotto-prefetto forte di una biografia e di una carriera le quali – stando agli atti del processo di Caltanissetta – sembrano scritte a quattro mani con Antonio Calogero Montante, l’impostore spacciatosi per simbolo antimafia ed in effetti nel cuore di un boss mafioso, oltre che accusato di avere concorso dal 1990 all’associazione mafiosa ‘Cosa nostra’ e pluri-imputato come capo di due associazioni per delinquere.

Agli atti dell’inchiesta del processo di Caltanissetta che ha condannato Montante in primo grado a 14 anni di reclusione (sentenza d’appello prevista il 4 giugno prossimo) sono documentati la fitta frequentazione di Dispenza con Montante e con il capo della sua security personale Diego Simone Perricone (ex poliziotto condannato come altri esponenti e vertici delle forze dell’ordine appartenenti al sistema criminale), la richiesta di favori avanzata da Dispenza a Montante e la loro concessione da parte di quest’ultimo. Quale sia la valenza dei favori dati da Montante ai suoi clienti come Dispenza, è ampiamente noto e già oggetto di ampia trattazione anche nei contenuti di questa rubrica.

Il secondo motivo a rendere, per l’interesse pubblico alla conoscenza, di grande rilievo quell’udienza è la presenza scenica, nell’occasione, di Dispenza nelle aule e negli uffici del palazzo di Giustizia di Ragusa.

Il primo motivo è presto detto, in attesa della necessaria e doverosa integrazione che appena possibile offriremo ai lettori quando sarà disponibile la trascrizione del verbale d’udienza.

Nel suo esame dibattimentale – esame naturalmente e ritualmente affidato alle parti, tutte: accusa, difesa, parte civile e, ovviamente, l’organo giudicante che arbitra e conduce il processo  – Dispenza si presenta come ‘sedicente’ servitore dello Stato al quale, proprio in ragione e per effetto di questa autocertificata e ostentata qualità, nessuna domanda, che egli non veda come funzionale alla sua naturale ‘sedicenza’, possa essere posta. E ciò perché sia esaltata e sostenuta la sua narrazione da comiziante, totalmente estranea al contenuto delle domande e quindi priva di risposte, in dispregio delle regole elementari dell’istruttoria dibattimentale finalizzata all’accertamento dei fatti per cui si procede.

Imbarazzanti la lunga sequenza di autocelebrazioni totalmente inconferenti, l’incapacità del teste Dispenza di rispondere a domande non provenienti dal pubblico ministero, la sua pretesa di respingerle e contestarle come – anch’esse – una sorta di ‘lesa maiestà’, gli scontri con il Tribunale (in composizione monocratica) e quindi con un Giudice, onorario – per la cronaca Laura Ghidotti – che sa rendere onore alla funzione bloccando le pulsioni devianti del teste (non solo ‘sedicente’ servitore dello Stato, ma ‘monodicente’, autoreferenziale, imbarazzante nella sua inattendibilità e ripetitivo come un disco rotto) e affermando tutte le volte, tante, che è necessario, la corretta fisiologia processuale.

In attesa che il verbale d’udienza possa raccontarci ogni dettaglio, il primo motivo contiene un elemento di specifica rilevanza cui di seguito accenniamo.

Nel suo fervore autocelebrativo, Dispenza comunica al Tribunale che le misure di protezione di cui dispone per la sua sicurezza personale sono state innalzate al massimo livello. Fin qui non ci sarebbe nulla da obiettare, in presenza di ragioni gravi tali da giustificarne l’adozione: potremmo pensare a gravissime minacce contro la sua persona o persone a lui vicine da parte della mafia o della criminalità comune organizzata, perché – l’una o l’altra, o entrambe – aggredite dal suo operato di ‘servitore’ dello Stato e quindi desiderose di punirlo e di bloccarlo in tale attività di ‘servizio’ allo Stato e di attacco ai loro interessi criminali. Oppure le gravi minacce potrebbero giungere da qualche killer o aspirante tale i cui affari delittuosi siano stati ostacolati o colpiti dal poliziotto-prefetto. Ma non c’è bisogno di andare oltre nelle congetture perchè la chiarezza di Dispenza su questo punto è piena, esemplare, tranciante.

Egli infatti in questo caso non elude le domande e ha il coraggio di indicare, con nomi e cognomi, gli autori delle gravi minacce nei suoi confronti: e qui – come vedremo – il punto non è che egli si senta minacciato, ma che il suo ‘sentirsi minacciato’ sia stato e sia preso sul serio, vagliato, oggettivamente confermato da chi ha potuto decidere (se, come c’è da credere e soprattutto da sperare, non sia egli stesso a poter prendere queste decisioni) di innalzare il livello delle misure di protezione, misure quindi già attive in precedenza e sarebbe interessante anche in questo caso conoscere le ragioni del suo stato di pericolo: ragioni obiettive e non certo esistenti unicamente nella sua auto-percezione soggettiva e nel suo habitat mentale.

Ma veniamo ai nomi dei pericolosi autori delle minacce o, quanto meno, autori dei fatti dai quali egli si sente – e anche chi gli ha raddoppiato la scorta lo ritiene – minacciato. Gli autori sono cinque: un sindaco, un assessore, un giornalista, un dirigente pubblico e un avvocato. Lo stesso Dispenza ha il coraggio di fare i nomi – onore al suo profilo di servitore dello Stato pluri-minacciato – e quindi possiamo qui riferirli.

Il sindaco è Francesco Aiello, primo cittadino di Vittoria democraticamente eletto dopo la sciagurata e disastrosa amministrazione della città ad opera del trio-Dispenza (con la debita eccezione per il vice prefetto Giancarlo Dionisi dimessosi dopo appena otto mesi in dissenso rispetto al modus operandi del capo della commissione); l’assessore è Cesare Campailla, membro della giunta-Aiello e del quale abbiamo già parlato come imputato nel processo accennato in premessa; il giornalista sono io; il dirigente pubblico è Fabio Ferreri, direttore generale della Srr (Società regolamentazione rifiuti) Ato Ambiente, figura di specchiata onestà e competenza, nonché attivamente impegnata nella tutela degli interessi pubblici propri del ciclo dei rifiuti, perciò inviso ai tanti curatori di interessi privati, anche illeciti, in conflitto; l’avvocato è Salvatore Messina, ‘colpevole’ di avere tentato, nell’esercizio della sua attività professionale, di interloquire con il Comune e i suoi organi amministrativi al tempo del trio-Dispenza e perciò perseguitato e criminalizzato (in proposito ecco un articolo di oltre due anni fa su un precedente illuminante (leggibile qui).

Io ovviamente conosco per filo e per segno i fatti da me commessi per i quali Dispenza si dichiara minacciato e per i quali lo Stato, o qualche suo pezzo o pezzettino, si deve desumere gli abbia ‘montato’ ad arte o gli abbia offerto una progressiva protezione montante, fino al livello massimo necessario per fronteggiare e respingere quelle minacce.

I fatti, da me commessi, sono, nell’ordine, i seguenti.

1.I servizi d’informazione trasmessi da La Prima Tv nel corso del 2019, fino a settembre quando ho dovuto lasciare la direzione della testata. Per uno di questi servizi, solo per uno tra tanti, nel caso specifico un mio commento contenuto nell’editoriale quotidiano dell’1 agosto 2019 ‘La prima replay’, spazio d’approfondimento trasmesso subito dopo il tg, sono stato querelato da Dispenza e citato dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ragusa Fabio D’Anna direttamente a giudizio, quindi senza il vaglio di un giudice. Stando al capo d’imputazione formulato dal pm D’Anna, la mia colpa consiste nella frase, riferita alla città di Vittoria e all’amministrazione dell’ente comunale e da me pronunciata a conclusione di una lunga analisi in cui ogni fatto è riferito con chiarezza: <<c’è una cappa di piombo che impedisce l’esercizio minimale delle funzioni democratiche>>.  In proposito ribadisco la totale fondatezza e legittimità della frase, la sua piena rispondenza alla verità dei fatti che ne sono alla base, la sua conformità ai canoni legislativi e giurisprudenziali che tracciano i confini del diritto-dovere di cronaca e della libertà di critica la quale, per i giornalisti, è anche dovere deontologico; ne segnalo perfino l’ovvietà, e ciò al di là del merito dei fatti e del grave disagio sociale allora avvertito dalla città, in una condizione di gestione commissariale sostitutiva delle funzioni del sindaco, della giunta e del consiglio comunali. E ribadendola, quella frase, la ripeto, affinché, se del caso altre querele possano aggiungersi a quella che ha già originato il processo in corso. E se questo è un reato sono determinato a commetterlo tutti i giorni, innumerevoli volte al giorno.

2.Due successivi miei articoli pubblicati da ‘I Siciliani giovani’ il 27 luglio e il 3 settembre 2020 (leggibili qui e qui). Vale la pena rileggerli, come già invitato a fare in precedenza. Nell’occasione ribadisco la totale verità delle notizie in essi contenute, peraltro tratte da fonti documentali aperte in gran parte consistenti in atti del processo ‘Montante+22’ giunto all’attesa della sentenza d’appello prevista il 4 giugno prossimo; sono certo della piena correttezza dell’esposizione, mentre affido alla libertà di ciascuno di cogliervi o meno l’interesse pubblico alla conoscenza: verità, pertinenza e continenza sono, come è noto, gli elementi costitutivi del diritto di cronaca la cui sussistenza esclude ogni fumus di diffamazione. Ecco, i fatti da me commessi e le armi con cui ho gravemente minacciato Dispenza, sono queste. Ciascuno può valutare e, se del caso, mi chiami a rispondere del grave danno economico inflitto ai cittadini-contribuenti per il costo delle elevatissime misure di sicurezza delle quali, a causa delle mie ‘minacce’, Dispenza ha avuto ed ha bisogno. Quanto al danno economico inflitto da questi al Comune e ai suoi cittadini contribuenti attraverso le tante querele persecutorie attendo ancora che il Comune di Vittoria e il suo sindaco in carica, adempiendo finalmente ad un elementare dovere di trasparenza, facciano sapere lo stato delle cose e come intendano procedere: in un procedimento il sindaco Aiello, rappresentante legale pro tempore del Comune, allo stato degli atti è parte civile contro l’imputato Aiello: cioè se stesso!

Tornando alla ‘banda dei cinque’, detto di me, sugli altri quattro autori di gravi ‘minacce’ a Dispenza, per ovvie ragioni potrò essere meno preciso, ma la verità essenziale è tutta nei cenni che seguono. Per quanto di mia conoscenza, e utilizzando come fonte il minacciato Dispenza e le sue dichiarazioni in Tribunale, Aiello e Campailla, all’epoca dei fatti semplici cittadini e politici impegnati nel territorio ma privi di incarichi istituzionali, sono responsabili di libera manifestazione del pensiero e critica politica, ‘reati’ commessi con l’arma di qualche post sui social media e, come osservato per Campailla imputato di diffamazione, con pubbliche dichiarazioni in piazza durante un comizio. Ferreri oltre ad avere sempre strenuamente difeso con competenza e rigore l’interesse pubblico, l’efficienza e la qualità del servizio di igiene ambientale nel territorio ed essere stato perseguitato per questo, credo abbia commesso l’ulteriore ‘reato’ consistente in qualche parola di apprezzamento o di condivisione di qualche mio servizio giornalistico. Stessa, gravissima, responsabiità contestabile a Messina, del quale abbiamo già ricordato l’episodio inquietante di cui a marzo 2020 è vittima.

Ed ora il secondo motivo accennato in premessa: la presenza scenica di Dispenza nelle aule, nei corridoi e in uffici del palazzo di Giustizia il 21 marzo scorso.

L’ex (perchè in quiescenza) poliziotto-prefetto si presenta in Tribunale a Ragusa, assistito e accompagnato da un folto gruppo di persone, i ‘suoi poliziotti’, che devono seguirlo a vista d’occhio per le sue gravi esigenze di sicurezza, già chiarite con le notizie della loro rivelazione da parte sua in dibattimento.

Tutto ciò non solo nel percorso finalizzato al suo ingresso e alla sua permanenza nell’aula in cui si tiene l’udienza citata concernente il suo esame dibattimentale. Ma nell’intero suo muoversi nel palazzo di Giustizia, verso altre mete: oltre all’aula indicata, anche l’ufficio del procuratore ed un’altra aula in cui quello stesso giorno si svolge un’udienza avente ad oggetto un altro dei processi determinati da querele promosse da Dispenza (sempre nella funzione di commissario del Comune e quindi con i soldi dei cittadini vittoriesi): in questo caso imputato Salvatore Messina, avvocato, un altro dei cinque che a suo dire attentano alla sua sicurezza personale.

Nei due processi Dispenza è parte civile, la quale è una delle parti di un processo, distinta dalle altre: pm e imputato. Nel suo ruolo di parte civile fa ingresso, insieme al procuratore della Repubblica presso il Tribunale, in entrambe le aule in cui si trovano già i due rispettivi pubblici ministeri d’udienza (in entrambi i casi due vice procuratori onorari), i rispettivi imputati con i loro difensori e i rispettivi organi giudicanti, in entrambi i casi in composizione monocratica: Laura Ghidotti nel giudizio riguardante Campailla e Gaetano Di Martino, magistrato togato, in quello concernente Messina. In quest’ultimo Dispenza si fa notare per la palese insofferenza e per l’opposizione alla richiesta di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento del difensore dell’imputato. Il giudice, preso atto dell’impedimento, rinvia, per la delusione di Dispenza e del suo stuolo.

Dell’altra udienza abbiamo già detto. In essa Dispenza, sempre confortato dal procuratore, nell’area del pubblico, può fare le sue esternazioni al pm di servizio in udienza e alle altre parti processuali, fidando anche su un nutrito gruppo di spettatori. In un’aula sempre vuota sia prima che dopo, accade infatti che ad un certo punto il Giudice  durante quest’udienza veda l’anomalia e la rilevi. E quando chiede genericamente chi siano i numerosi astanti, partecipi e non sempre silenti, emerge che in gran parte si tratti di poliziotti in abiti privati (in servizio o nel tempo libero?), diversi e aggiuntivi rispetto agli agenti addetti alla scorta di Dispenza. Ed uno di tali ‘spettatori’ è colui che, nell’episodio poc’anzi riferito dell’11 marzo 2020 di cui è vittima l’avvocato vittoriese Salvatore Messina, provvede a identificare e fotosegnalare il malcapitato. Il quale – oggi sappiamo da Dispenza – minaccia, come me – giornalista e in quanto giornalista – e come gli altri tre indicati (sindaco, assessore e pubblico dirigente), la sua ‘sicurezza’.

Abbiamo già visto ‘sicurezza’ da cosa.

Ma, ‘sicurezza’ di fare cosa?

2 – continua

L’articolo precedente è stato pubblicato il 27 marzo scorso (leggibile qui)