Con InSiciliaTV l’informazione la fai tu

Il vescovo, l’arcivescovo e il quasi vescovo. Nell’affaire-Salonia le impronte di Lorefice e di Gisana, investito dal ciclone giudiziario per la copertura nella sua diocesi degli abusi sessuali del clero in danno di minori. Ecco il manuale per proteggere i preti pedofili e neutralizzare le vittime ‘todo modo’: con l’aggressione o con danaro in cambio del silenzio. Un campionario inquietante: soldi dell’otto per mille alla difesa degli accusati, lo scudo della confessione per l’omertà e la menzogna, le petizioni sollecitate ai fedeli in favore di chi è imputato di violenze e di chi fa di tutto per nasconderle, anche dopo il ‘Motu proprio’ del Papa che nel 2019 ha cancellato il segreto

4.159

La presente inchiesta giornalistica ‘inGiustizia Vaticana’, la cui prima parte è stata pubblicata il 14 ottobre scorso (qui), prende le mosse dalla condanna, frutto come abbiamo documentato di una sentenza assurda e ingiusta, inflitta dall’autorità vaticana nell’ambito di un processo canonico a Nello Dell’Agli, teologo e psicoterapeuta, fondatore a Ragusa della fraternità di Nazareth e membro del clero diocesano.

Cercando la spiegazione è emersa la matrice ritorsiva del provvedimento emesso per punire l’unico vero ‘delitto’ commesso dal sacerdote colpito con la pena massima, la amissio status clericalis: avere testimoniato, in sede ecclesiastica e in un procedimento penale della procura di Roma, su fatti riguardanti Giovanni Salonia, influente frate cappuccino nominato vescovo il 10 febbraio 2017 e poi non consacrato per effetto di rinuncia in seguito alle denunce su tali vicende.

In proposito, dentro questo tassello del puzzle, nella prima parte dell’inchiesta abbiamo lasciato la cronologia dei fatti al 27 aprile 2017, data della rinuncia di Salonia ampiamente illustrata. Pertanto dovremo analizzare gli accadimenti successivi tra i quali il processo penale a carico di Salonia imputato di violenza sessuale (concluso, dopo la richiesta della procura di rinvio a giudizio, con sentenza di non luogo a procedere il 28 febbraio 2020 per tardiva presentazione della querela), le testimonianze in tale processo tra le quali quella di Dell’Agli e gli sviluppi ulteriori fino alla  sua ‘condanna’: temi oggetto delle prossime puntate dell’inchiesta.

In questa ci soffermiamo su un altro aspetto perchè la ricostruzione documentale del travisamento della realtà operato dagli organi giudiziari vaticani pervenuti a tale condanna – dalla quale la nostra ricerca prende le mosse – nonché le vicende collegate e certe dinamiche sottostanti, ci hanno fatto conoscere, tra gli altri, il ruolo e gli atti compiuti dall’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice e dal vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana.

Il primo – abbiamo visto – a febbraio 2017 preme fortemente su papa Francesco per chiedere una commissione chiamata a giudicare la fondatezza di tali denunce, commissione che ottiene il 2 marzo quando il pontefice la istituisce; il secondo la capeggia e la guida al proscioglimento di Salonia: conclusione in palese contrasto con i dati di realtà per ammissione stessa (un anno e mezzo dopo, in sede penale) del prosciolto.

Successivamente Dell’Agli riceve, da altro ‘tribunale ad hoc’ vaticano, la condanna, infondata e assurda quanto il ‘non luogo a procedere’ canonico sancito dall’invocata commissione a beneficio del vescovo ‘eletto’ Salonia il quale tuttavia, come abbiamo visto, rinuncia alla carica, in apparenza per libera scelta, nei fatti per diktat papale.

Gisana, Lorefice, Salonia: relazioni, esperienze, carriere

di tre vescovi nominati, ma solo i primi due ‘consacrati’

Per la cronaca Gisana, Lorefice e Salonia sono nati in provincia di Ragusa, rispettivamente a Modica, Ispica e Ragusa, dove si sono anche formati, tra le diocesi di Ragusa e Noto.

Nel tempo, dagli anni ’80 e soprattutto dall’ordinazione sacerdotale dei primi due, rispettivamente nell’86 e nell’87 (il terzo è sacerdote già nel ’71) incrociano personalmente e condividono una molteplicità di esperienze. Gisana e Lorefice per l’attività espletata nella diocesi di Noto – dove tra l’altro in un periodo il secondo è vice del primo nel rettorato del seminario vescovile – e nella chiesa di Modica che ne fa parte. Il terzo, Salonia, nella qualità, di fatto per quasi vent’anni dal ’92 al ‘10, di ministro provinciale dei frati cappuccini con base nel convento di Modica, città che è anche il centro più importante della diocesi netina. La carica di ministro, comunque preceduta e seguita nel tempo, dal ’78 e fino al momento della nomina al soglio episcopale, da incarichi di massima responsabilità nell’ordine religioso fondato sulla regola francescana, riguarda la ‘provincia cappuccina’ di Siracusa, per 448 anni dal 1574 al 2022, una delle tre di Sicilia, comprendente un vasto territorio comprendente le province (politico-istituzionali) di Ragusa, Siracusa, Catania, Enna e Caltanissetta, con una sede importante a Modica.

Nella storia questa provincia ‘Syracusana’ (le altre due sono Messanensis e Panormitana) a lungo è la più importante al punto da inglobare per un secolo e mezzo anche l’isola di Malta, da mandare i propri frati in servizio nel mondo, da ottenere in affidamento la missione di Rio de Janeiro dove impianta l’ordine, e da elevare diversi propri membri alla carica di ministro generale, nel Seicento ben tre in meno di cinquant’anni: Clemente Di Lorenzo e Giammaria Minniti da Noto, Innocenzo Marcinò, prossimo beato, da Caltagirone. E a un passo dalla carica di ministro generale, vertice dell’ordine, giunge anche durante la sua ‘carriera’ di frate, prima della nomina episcopale, Giovanni Salonia da Ragusa, ma l’ascesa non si concretizza.

Tornando ai fatti oggetto di quest’inchiesta, egli nel 2017 è responsabile della formazione permanente della ‘provincia cappuccina di Siracusa’, che oggi come abbiamo visto non esiste più, confluita nel 2022 nell’unica provincia siciliana.

A questo punto dobbiamo soffermarci su Gisana, che abbiamo visto  non solo a capo della commissione che a marzo 2017 scagiona Salonia, ma anche suo vescovo co-consacrante designato, nella celebrazione che Lorefice avrebbe presieduto se il futuro braccio destro dell’arcivescovo di Palermo non si fosse visto costretto a ‘rinunciare’ a tale consacrazione la quale sarebbe dovuta avvenire perentoriamente entro il 10 maggio.

E ciò perché, sempre per la cronaca, in questo caso ben più nota, Gisana da oltre due anni, e tuttora nella calda attualità di questi giorni, è investito dallo scandalo giudiziario della copertura data alle violenze sessuali commesse da sacerdoti della diocesi di cui da oltre nove anni è vescovo: Piazza Armerina, comprendente parte dei comuni delle province di Enna, compreso il capoluogo, e di Caltanissetta.

Rosario Gisana di Modica, vescovo di Piazza Armerina

insabbiatore seriale di scandali e abusi sessuali del suo clero

Il caso eclatante è quello culminato nell’arresto, il 27 aprile 2021, del sacerdote Giuseppe Rugolo, oggi quarantaduenne, accusato di violenze sessuali su minori e sotto processo dinanzi al tribunale di Enna che il mese prossimo emetterà la sentenza dopo quindici udienze ed una fitta istruttoria dibattimentale. E’ solo uno di tanti casi simili, clamoroso perché l’unico segnalato – alla polizia giudiziaria, con gli sviluppi conseguenti, appunto eclatanti – da una vittima tenace la quale, dopo sette anni di reiterate e inutili denunce alle autorità ecclesiastiche, non si arrende al sistema clericale di menzogna e omertà che protegge i preti abusatori e sacrifica i minori abusati.

Emerge infatti che quando il sacerdote viene arrestato, il vescovo da cinque anni è a conoscenza dei fatti oggetto d’accusa, dal 2016 quando una delle vittime finalmente può raccontargli tutto dopo averci a lungo provato invano. E’ Antonio Messina, quindicenne nel 2009 al tempo degli abusi nella chiesa di San Giovanni Battista di Enna proseguiti fino al 2013. Infatti già nel 2014, sempre con Gisana vescovo – nominato da papa Francesco il 27 febbraio e ordinato il 5 aprile di quell’anno – il giovane denuncia ad altri sacerdoti le violenze subite, ma trova un muro di gomma. Comincia con l’anziano parroco che l’ha visto crescere, Pietro Spina (vicario parrocchiale della chiesa in cui avvengono gli abusi), il quale non fa nulla. Quindi si rivolge ad un altro prete, Vincenzo Murgano, vicario giudiziale del tribunale ecclesiastico ed anche responsabile diocesano del ‘servizio di tutela dei minori’: <<non parlarne con nessuno e dimentica>> è la risposta, scioccante se viene da un giudice canonico nonché garante delle vittime in materia. Un terzo parroco, per fortuna diverso dagli altri, informa il vescovo il quale però, dinanzi alla mancata ammissione di Rugolo, fa passare due anni prima di ascoltare la vittima. Solo in seguito Rugolo, nuovamente convocato, questa volta ammette qualcosa, proprio quando sta per insediarsi come parroco della Chiesa di San Cataldo di Enna.

In proposito fa impressione leggere oggi le notizie e i comunicati della diocesi in quel periodo. Per esempio il 18 settembre 2018 Gisana officia la messa, in una chiesa gremita, per annunciare il nome del nuovo parroco dopo il ritiro del titolare per limiti d’età. Negli articoli che ne riferiscono e nei comunicati riportati leggiamo: << Il vescovo Rosario Gisana ha deciso che a ricoprire la veste di parroco della comunità, nominato dopo accurato discernimento, sarà padre Giuseppe Rugolo, vice parroco della chiesa madre di Enna. La solenne funzione religiosa d’insediamento, con la firma del verbale di nomina, si svolgerà nel mese di novembre>>.

Da oltre due anni, in quel momento, il vescovo sa delle violenze e degli abusi di cui il vice parroco è accusato. Eppure, ‘dopo accurato discernimento’ (del quale sarebbe interessante conoscere l’oggetto) lo promuove e gli offre un pulpito superiore, insieme a strumenti più potenti ed efficaci di prima per la sua opera: quale che essa sia.

Dopo quest’annuncio sale la tensione negli ambienti diocesani e la funzione d’insediamento perde la solennità annunciata. Ma Rugolo comunque diventa parroco e può agire forte di questo status. Solo per un anno però, perché, al precipitare degli eventi, Gisana, a ottobre 2019, lo trasferisce nell’arcidiocesi di Ferrara-Comacchio: è questo il suo primo e unico atto compiuto da capo della diocesi ‘contro’ gli abusi, tre anni dopo averne avuto notizia, anni durante i quali addirittura promuove e premia l’accusato rendendolo più forte ed invasivo di prima proprio nell’ambito potenziale delle sue scorribande. Neanche lo sfiora l’idea di segnalare immediatamente i fatti all’autorità giudiziaria, come sarebbe preciso dovere di ogni persona proba e responsabile, laica o clericale, ‘fedele’ o no che sia: tranne che fedele voglia esserlo al male, alla violenza, all’abuso.

Il caso-Rugolo scopre nella diocesi un verminaio:

25 mila euro in cambio del silenzio della vittima

L’omissione prosegue anche dopo l’entrata in vigore, l’1 giugno 2019, del ‘Vos estis lux mundi’, il Motu proprio di Bergoglio che cancella il segreto pontificio sugli abusi sessuali commessi da uomini del clero in danno di minori e di persone fragili.

Anzi, non solo il vescovo non asseconda le nuove prescrizioni papali, ma da testimonianze processuali si apprende che in quel periodo offre alla vittima (versione da lui contestata) 25 mila euro in contanti, da prelevare, secondo quanto avrebbe detto ai genitori del ragazzo abusato, dai fondi della Caritas (dal 2017, in virtù di una riforma da lui disposta, egli stesso ne è direttore) purchè con falsa causale e con segretezza assoluta sull’affare transattivo in cambio del silenzio tombale. Ma, come vedremo, non se ne fa niente.

Il vescovo quindi ‘risolve’ il caso, secondo una prassi dura a morire nonostante le nuove disposizioni del Papa, trasferendo il prete pedofilo in altra sede: Ferrara come detto, ‘per motivi di salute’ e senza alcuna inibizione sicchè, sempre secondo prassi consolidata, può tranquillamente svolgere ogni attività, comprese quelle che lo tengono in contatto con minori, tant’è che nell’estate 2020 nella parrocchia di Vigarano Mainarda organizza un campo con centinaia di ragazzi. E’ questa la sua specialità del resto, come sa bene chiunque lo abbia visto all’opera ad Enna dove, giovane prete, nel 2015 fonda un’associazione, ‘Progetto 360’, con centinaia di ragazzi.

Dopo appena un anno a Ferrara, dove le relazioni sessuali che intrattiene – e delle quali gli inquirenti per effetto delle indagini abbiano notizia – riguardano adulti, il sacerdote, convinto di averla fatta franca, briga per tornare a Piazza Armerina, fa pressioni, vuole organizzare il Grest dell’anno successivo ma il 27 aprile 2021, in terra emiliana, per lui scattano le manette perché la vittima, dopo un settennale calvario di inutili tentativi di farsi ascoltare, finalmente si rivolge alla polizia giudiziaria. Nel seminario dell’arcidiocesi Rugolo vive la condizione di detenuto agli arresti domiciliari, disposti dal giudice delle indagini preliminari per il rischio di reiterazione del reato e <<la tendenza dell’indagato a cedere alle pulsioni sessuali in maniera incondizionata>>: misura convertita dopo tredici mesi in obbligo di permanenza notturna.

Gisana intercettato: io ho insabbiato questa storia,

eh vabbè pazienza, vediamo come poterne uscire

Il processo, in corso da due anni, rivela al mondo e dilata a dismisura l’entità dello scandalo, ben più ampio di quanto si potesse credere. Le vittime sono tante e la condotta di vari componenti del clero diocesano sconcertante. Peraltro Gisana, intercettato, ammette: «Il problema è anche mio perché io ho insabbiato questa storia… eh vabbè, pazienza, vedremo come poterne uscire!». Ma le ‘storie’ sono numerose – di abusi sessuali e di sistematiche coperture da parte dei vertici ecclesiali – e proiettano della diocesi di piazza Armerina l’immagine di un luogo, per i preti pedofili, sicuro, ospitale, amico nonchè molto generoso verso le loro pretese di ordinaria impunità.

In un’altra intercettazione il vicario generale della diocesi Antonino Rivoli si esercita in un turpiloquio, inimmaginabile ma reale (ne omettiamo le espressioni testuali per rispetto delle nostre lettrici e dei nostri lettori) per insultare un collega sacerdote, Giuseppe Fausciana, che apostrofa ‘bestia’ per avere ascoltato la vittima (definita ‘bastardo’) ed essersi fatto portavoce, l’unico, della sua denuncia.

Dal processo emerge con nettezza lo spaccato di un clero e di un vertice diocesano schierati, con poche eccezioni, nettamente dalla parte dei preti pedofili, e contro le vittime degli abusi delle quali sembra non importare niente agli uomini in abito talare, con o senza zucchetto. Quando Gisana, intercettato, ammette di avere insabbiato la denuncia, neanche per un istante sembra toccato dal pensiero per la vittima, concentrato piuttosto sui rimedi per sè, sulla propria ‘salvezza’: <<eh vabbè, pazienza, vedremo come poterne uscire>>. Quale sia l’uscita, nei suoi piani, lo rivelano alcune testimonianze: 25 mila euro in contanti da sottrarre alla Caritas, merce di scambio per il silenzio e il salvacondotto giudiziario della rinuncia a denunciare.

«Dovevano essere in contanti – racconta in udienza il ragazzo abusato, ormai adulto e valente archeologo – il vescovo disse ai miei genitori che li avrebbe presi dai fondi della Caritas. Chiesero di firmare una clausola extragiudiziale di riservatezza in cui, in cambio di questa somma, io mi impegnavo a non parlare più con nessuno di quanto mi era successo. Ho avuto la sensazione di essere comprato». La diocesi nega: «Il riserbo  – dichiara il difensore della curia vescovile – era una richiesta della famiglia, non è stata fatta alcuna offerta di denaro con l’intento di comprare il silenzio della parte offesa. Anzi, la trattativa parte proprio dalla famiglia, in un primo momento come sostegno per le spese sostenute e poi a titolo risarcitorio».

Su questa circostanza la parte civile chiama a deporre l’avvocato rotale Federico Marti indicato come persona informata dei fatti in quanto avrebbe seguito la trattativa tra la diocesi e la famiglia del minore abusato. Il teste, prima di essere comunque ammesso dal tribunale, comunica la propria indisponibilità per motivi di salute e, in ogni caso, fa presente che si sarebbe avvalso del segreto professionale. Silenzio dunque in udienza, ma il silenzio, come abbiamo visto, spesso racconta più d’ogni esercitazione verbale!

Gisana al giornalista: a cosa si riferisce? I casi sono tanti! E c’è anche quello

della bambina abusata in sacrestia dal prete che ha l’età del suo bisnonno

Finora si sono tenute 15 udienze dibattimentali, alcune anche della durata di 10-12 ore, fino a tarda sera. Il processo verte sui fatti imputati a Rugolo (violenza sessuale aggravata in danno di tre minori) ma fa emergere altri abusi da parte di sacerdoti della diocesi su bambini e ragazzi sia di sesso maschile che femminile. Del resto quando, esploso il caso, il vescovo viene chiamato da un giornalista dell’Ansa che gli chiede degli abusi, non comprende a quale vicenda si riferisca: <<mi scusi, non ho capito di chi si parli, abbiamo tanti casi».>>. Tanti e di sua conoscenza!

Infatti il lungo dibattimento smaschera una linea diocesana di difesa dei pedofili, di sostanziale allineamento ai loro interessi di impunità e di pretesa di conservazione del loro modus operandi all’interno della chiesa. Per esempio emerge che Gisana sa delle violenze su una bambina di undici anni a Gela ad opera di un anziano prete, Vincenzo Iannì, rinviato a giudizio nel 2019. E lo sa anche Murgano che si dice invece ignaro, nonostante il suo ruolo di responsabile del servizio di tutela dei minori, di altri casi noti al vescovo.

Peraltro è Gisana a settembre 2018 a nominare Iannì, che oggi ha 82 anni, vice parroco della Chiesa di Santa Lucia di Gela, in un quartiere con grave disagio sociale, e a riabilitarlo dopo che il predecessore Michele Pennisi, vescovo a Piazza Armerina da aprile 2002 ad aprile 2013, lo ha allontanato a causa dei suoi precedenti specifici. Inoltre Gisana a maggio 2017, un anno prima di mandarlo a Gela, lo nomina vice cancelliere vescovile.

Il caso, che troviamo citato nella relazione della corte d’appello di Caltanissetta pronunciata nella cerimonia d’apertura dell’anno giudiziario 2021, è clamoroso. Un prete, Iannì appunto, all’epoca ultrasettantenne, adesca una bambina di undici anni e l’attira in una trappola in canonica, quando non c’è nessuno, approfittando dello stato di grave indigenza della famiglia, nonché di vulnerabilità, di fragilità psicologica, di bisogno e di disperata richiesta d’aiuto della ragazzina la quale ripone fiducia in quell’anziano prete che ha l’età del proprio bisnonno.

In dibattimento video shock e intercettazioni eloquenti:

un parroco predatore sessuale tra i minori a lui affidati

Nel processo-Rugolo in aula vanno in scena la proiezione di video scioccanti e l’ascolto di audio inequivocabili sull’agire quotidiano del sacerdote, anche al di là dei fatti oggetto d’imputazione: spavaldo, eccentrico, temerario, incline al turpiloquio con i ragazzi che dovrebbe educare, privo di scrupoli e mosso da pulsioni sessuali continue e incontrollabili – che ostenta regolarmente ai minori che influenza, coinvolge, irretisce e adesca – affetto da porno-dipendenza compulsiva come attestato dalle migliaia di suoi accessi ai siti web, una media di oltre sessanta al giorno: oltre venti mila in dieci mesi, il periodo marzo 2020-gennaio 2021 oggetto d’indagine.

In aula la sua difesa fa ascoltare la registrazione di un colloquio con il vescovo Gisana il quale, ignaro di orecchie esterne, sostanzialmente lo assolve e lo ‘beatifica’ (questa almeno è la tesi dell’imputato) dicendogli addirittura: <<caro Giuseppe, per te ci sono tutti i presupposti per diventare santo>>. In una lettera ad organi di stampa i quali riportano la frase, Gisana chiede di rettificare cercando di spiegare di non avere inteso usare alcuna indulgenza né approvazione dei comportamenti sotto accusa ma solo dire che anche nella vita dei beati possono esserci stati momenti oscuri. <<Il colloquio se complessivamente ascoltato appare chiaramente volto ad esortare nel Rugolo una profonda riflessione sui fatti … ricordandogli che anche i santi hanno attraversato e superato momenti in cui hanno peccato o sono stati tentati>>: parole del vescovo il quale inoltre definisce  ‘letteralmente inventata’ l’analogia tra la vicenda di Rugolo e suoi trascorsi personali richiamati in quella conversazione. Il parroco infatti nel colloquio, che registra a propria difesa, invita più volte il vescovo a raccontare la sua vicenda personale, facendo intendere che abbia molti punti di contatto con la sua. Quali punti di contatto? Dal colloquio intercettato non si evince. Gisana comunque nella richiesta di rettifica alla stampa nega ogni analogia.

Un vertice diocesano compatto a difesa degli abusatori,

aggressivo contro le vittime e contro l’unico sacerdote che se ne cura

In un altro brano del colloquio risuonato in udienza, secondo l’imputato il vescovo  dice al prete pedofilo che nella diocesi c’era un altro sacerdote <<che ha fatto cose molto peggiori delle tue, ma non viene fuori. Nessuno lo denuncia e, certo, non posso farla uscire io. Invece tu, un giovane di 38 anni stai passando tutto questo>>.

In ogni fase della vicenda il ragazzo abusato subisce, da uomini di chiesa e dai loro entourage, una sistematica aggressione intimidatoria, persecutoria e discriminante, volta anche ad estrometterlo dalle attività parrocchiali nelle quali è impegnato. Eloquente la fitta rete di messaggi, emersa in dibattimento, tra l’imputato e Vincenzo Murgano, il vicario giudiziale del tribunale ecclesiastico che di fatto diventa fidato consigliere del prete abusatore nella gestione degli aspetti scabrosi dello scandalo.

Come si apprende dalle udienze <<mons. Murgano, con cadenza quotidiana, forniva indicazioni e consigli strategici, avallando anche l’attività di controllo attraverso i social attivata da Rugolo ai danni della giovane vittima dell’abuso sessuale, colpevole, a dire dei due, di collaborare con il parroco di Sant’Anna (Fausciana, n.d.r.) nelle attività pastorali, nonché di svolgere attività professionali nel contesto della città di Enna>>. Perciò Murgano suggerisce a Rugolo: <<chiama incazzato il vescovo e fai una foto della schermata e gliela mandi, ma proprio incazzato>>. Il sacerdote posto a tutela dei minori dagli abusi commessi dai preti pedofili aizza uno di questi contro il minore-vittima che lui per primo dovrebbe difendere!

La verità è come il ‘diavolo’ per gli uomini in abito talare:

smemorati in udienza, balbettano, si contraddicono, mentono

In udienza, dinanzi al materiale probatorio che l’inchioda, Murgano tenta di negare fatti documentati, si contraddice, viene più volte ammonito dal tribunale come quando risulta evidente che egli sia a conoscenza di altri casi di abuso su minori ad opera di altri sacerdoti della diocesi nella quale è responsabile del servizio per la tutela dei minori (incarico conservato fino a dicembre 2022) senza avere adottato mai alcun provvedimento.
Il processo racconta inoltre che Rugolo <<godeva anche del pieno sostegno del monsignore Pietro Spina (il primo sacerdote cui la vittima si rivolge, n.d.r.)  disposto a dargli fiducia anche qualora fosse risultato colpevole, confidando sulla prescrizione del reato e minimizzando gli episodi di abuso>> definiti, al pari di <<ogni atto sessuale diverso dalla penetrazione, semplici, normali e innocenti affettuosità>>, leciti quindi anche se nei confronti di minori e con l’abuso d’autorità dell’abito sacerdotale: è questa la tesi, singolare e ripugnante, illustrata al tribunale con ostentata convinzione dal prete novantenne.

Tale sostegno in favore di Rugolo e contro la vittima, a parte Fausciana, è corale: rispondendo alle domande della parte civile la quale gli chiede da chi avesse avuto il testo della denuncia ecclesiastica presentata dalla vittima alla diocesi e rinvenuta dagli investigatori nel suo pc, l’imputato spiega di averla ricevuta dalla segretaria del vescovo.

Ne scrive ampiamente la giornalista Pierelisa Rizzo, autrice di attenti reportages sulla vicenda e sulle oltre cento ore di udienze alle quali non è consentito assistere ma che certo non è vietato raccontare: anzi è preciso dovere dei giornalisti farlo, in nome di quella verità laica e civile alla quale dovrebbero aspirare anche gli uomini di chiesa, mossi da un motivo in più, almeno nella sfera della fede e della testimonianza evangelica: la frase di Gesù, nei vangeli di Giovanni <<… et cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos (…e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi)>>. E invece qui dalla verità fuggono peones e graduati del clero, e quando loro malgrado essa comunque li raggiunge, la ignorano, la nascondono, la mascherano. Quanto alla libertà, l’unica che sembra loro interessare è quella dalla verità stessa, dal dovere, dalla responsabilità, dal valore del bene.

Querele contro la verità pubblica, in difesa della menzogna e dell’omertà

Due elementi vanno tenuti presenti in questa vicenda e in molte altre simili, a proposito di verità: lo strumento della querela e quello della petizione con migliaia di firme per modellarla, forzarla, ribaltarla se necessario, a proprio piacimento.

Pierelisa Rizzo, giornalista di rigore etico e valore professionale, viene querelata da Rugolo per avere diffuso sul proprio profilo fb alcune chat a sfondo sessuale – materiale processuale – riguardanti il sacerdote e le sue imputazioni. La sua difesa ne domanda, e dal gip ottiene, l’oscuramento. Provvedimento cancellato dalla corte di cassazione, mentre il pubblico ministero chiede l’archiviazione del procedimento per diffamazione: a marzo prossimo sarà un giudice a decidere in seguito all’opposizione dell’imputato.

Eloquenti le parole della giornalista, il 3 maggio ’21, una settimana dopo l’arresto e cinque mesi prima del via al processo.

<<Leggo di una petizione ‘solidarietà al vescovo Gisana’, ma solidarietà di che? Che ha offerto 25 mila euro della Caritas alla famiglia della vittima? Che ha ammesso che sapeva delle violenze seppure quando Rugolo era seminarista e, dunque, ampiamente maggiorenne, e la vittima era certamente minorenne? Solidarietà perché ha provato ad insabbiare tutto? Solidarietà perché non avendo sospeso il parroco, come dice invano il ‘Motu proprio’ di Papa Francesco, dopo che era venuto a conoscenza del reato, non ha impedito che altri ragazzi venissero abusati? Mi chiedo perché di fronte a queste prove, che non ho certo costruito io, la Chiesa continui a coprire. Ho atteso ore per incontrare l’avvocato di Rugolo. Ho atteso perché, credo giusto sentire tutti i protagonisti. Ho atteso perché volevo raccontare l’altra faccia della medaglia. Ma mi interrogo a cosa serva raccontare una verità che sembra non incidere. Faccio la giornalista da trent’anni, da oltre trenta lavoro per l’Ansa. Mi sono occupata di tantissimi casi, brutti, pieni di orrore ma mai mi ero imbattuta in un caso in cui le evidenze dei fatti fossero negate così. Per prima cosa c’è un arresto. La procura non chiede, né un giudice dispone, un arresto così, a cuor leggero. Ci vogliono fatti gravi, che siano comprovati. E poi c’è l’inchiesta che racconta l’orrore allo stato puro. Questi i fatti che coinvolgono il vescovo della diocesi di piazza Armerina Rosario Gisana, due monsignori di Enna, e tanti e tantissimi preti ad Enna ed in tutta la diocesi. E questi sono responsabili come e quanto Rugolo. Che si sarebbe potuto fermare e forse aiutare. Dunque cari parroci, animatori parrocchiali, chierici, perpetue, monsignori e quanti altri che state condividendo anche sui gruppi privati la petizione di solidarietà a Rugolo, guardate dentro, interrogatevi sul perché venti o quarant’anni fa anni fa avete indossato quell’abito e provate a servire quel Dio che ora vi guarda con dolore. Non il vostro. Ma quello delle vittime che state sacrificando per il potere, per l’indifferenza, per l’ipocrisia di una Chiesa che, ad Enna, crolla a pezzi>>.

Le petizioni con migliaia di firme di solidarietà

al sacerdote abusatore e al vescovo insabbiatore

In quel periodo scatta una petizione sia in favore del vescovo che dello stesso parroco imputato. Firmano volentieri migliaia di fedeli, sicchè vien da chiedersi: ‘fedeli’ a cosa? Al vescovo ‘insabbiatore’ e al parroco’ abusatore’ arrestato per violenza sessuale in danno di minori? Non certo fedeli alla verità che peraltro, in relazione ai fatti contestati a Rugolo, solo chi non volesse non vedeva: almeno in riferimento ai comportamenti esibiti, al di là della sentenza di colpevolezza o meno che scaturirà dal processo penale.

Altro che ‘Vos estis lux mundi’, il Motu proprio pontificio entrato in vigore due anni prima dell’arresto di Rugolo e tre anni dopo che Gisana sia a conoscenza delle accuse. E che introduce precise procedure interne alle quali <<i vescovi devono attenersi rigidamente nel caso di una denuncia, anche anonima, che riguardi episodi di molestie sessuali da parte di un sacerdote>>. E qui, stando alle imputazioni, non si tratta di molestie, ma di atti reiterati di violenza sessuale.

Al contrario Rugolo e Gisana sono impegnati a ricevere attestazioni di solidarietà per la loro condotta: di asserita violenza il primo, di insabbiamento delle denunce il secondo.

Ovviamente non tutti i ‘fedeli’ sono uguali e tanti altri, al contrario, proprio perché prendono sul serio il provvedimento di papa Francesco, si chiedono, stupiti, perché un pontefice come lui lasci indisturbato quel vescovo al suo posto.

Petizioni e querele le armi in campo. Delle prime abbiamo detto. Quanto alle seconde Rugolo, con i soldi dell’otto per mille come vedremo, ne scaglia una anche al presidente della rete ‘l’abuso’ ed anche in questo caso la procura (di Savona) chiede l’archiviazione ma il querelante, sempre a spese dei fedeli, si oppone: deciderà il giudice delle indagini preliminari. Presidente dell’associazione, che ha sede in Liguria ed è parte civile nel processo di Enna, è Francesco Zanardi il quale, vittima da bambino di abusi sessuali in parrocchia, da anni si batte contro le violenze compiute da membri del clero. In questa lotta pro o contro la verità c’è poi la ‘giurisdizione interna’ con i suoi tribunali ecclesiastici che dentro la Chiesa hanno sempre la prima e l’ultima parola.

In Liguria il caso del parroco arrestato e condannato, tornato a dir messa

proprio laddove aveva violentato una bambina: <<la Chiesa è sovrana>>

Per esempio, per restare in Liguria, suscita ancora scalpore il caso del sacerdote Luciano Massaferro, riapparso tre anni fa a celebrare la messa in una parrocchia della stessa diocesi (Albenga, considerata refugium peccatorum di preti pedofili, uno dei tanti) in cui aveva violentato una bambina di undici anni. La condanna definitiva, a sette anni e otto mesi di reclusione inflittagli dalla giustizia penale italiana con interdizione perpetua dai pubblici uffici, una volta scontata la pena, non è bastata – vigente il Motu proprio di papa Francesco – ad impedirgli di tornare a celebrare l’eucaristia nello stesso luogo in cui aveva commesso quei turpi crimini. E ciò perché il tribunale ecclesiastico, dopo la sentenza dello Stato italiano, invece lo assolve perché ai giudici in abito talare <<non risulta che don Massaferro abbia commesso i delitti ascritti>>: cinque parole di … motivazione senza motivazioni, punto. Una sorta di aristotelico ipse dixit nelle tesi di Averroè. Con tante lodi allo stupratore, insieme al caldo invito a proseguire.

Infatti il vescovo, pur dopo una serie infinita di scandali abbattutisi su quella diocesi, spiega: <<Don Massaferro non sarà più parroco perché è interdetto dai pubblici uffici, ma può dir messa perché la Chiesa è sovrana>>.

L’assoluzione ecclesiastica di questo prete, che per la giustizia italiana è un pericoloso pregiudicato per avere violentato una bambina, all’interno della Chiesa cattolica è l’epilogo ‘regolare’ di vicende di questo tipo. Esiti diversi sono una rara eccezione.

Rugolo, sentenza penale a novembre ma la ‘giustizia’ ecclesiastica

lo ha già prosciolto. E i pessimi esempi sono sempre la regola

Tornando al caso-Rugolo, l’imputato, per la giustizia italiana sarà giudicato dal tribunale di Enna con la sentenza prevista il 7 novembre prossimo. Tale sentenza, se anche fosse di assoluzione, sarebbe comunque la risultante di un dibattimento che, sia rispetto ad un rudimentale e laico ethos morale che soprattutto ai valori della Chiesa (se li prendiamo sul serio), lo ha già condannato con infamia senza appello. Eppure egli è già stato assolto dalla cosiddetta giustizia ecclesiastica. Con una decisione di non luogo a procedere perché i fatti si sarebbero svolti quando era ancora seminarista e dunque ritenuti non di pertinenza della congregazione per la dottrina della fede.  Da rilevare che, come chiariscono in proposito le norme del diritto canonico (qui), l’asseritamente esclusa pertinenza è segno di comprovata sussistenza dei fatti oggetto d’accusa: eppure quel parroco esuberante risulta canonicamente ‘prosciolto’ e rimane libero di dare sfogo alle sue pulsioni sui minori a lui affidati.

Come chiarisce il testo di cui al link sopra richiamato, la cosiddetta ‘indagine previa’ dà il via al procedimento. Nel caso di quello riguardante Rugolo avviene anche che la sua vittima, come da essa dichiarato in dibattimento, prima di trovarsi costretta a rivolgersi alla magistratura penale italiana, <<sin dai primi colloqui con il vescovo, e anche durante l’indagine previa>> segnali <<un altro sacerdote che adescava ragazzini, compagno di seminario di Rugolo. Me ne aveva parlato Rugolo stesso quando frequentavo la parrocchia ad Enna. Nessuno però ha fatto nulla e oggi questo prete è parroco della diocesi con incarichi importanti a contatto con i minori». L’ennesima denuncia caduta nel vuoto, come tutte le altre.

A Gela, la città più popolosa della diocesi, un carabiniere, catechista della chiesa madre – rivela l’inchiesta di Federica Tourn sul tema ‘la violenza nella chiesa’ pubblicata dal quotidiano Domani – è sotto processo per violenza sessuale sul figlio minore e maltrattamenti nei confronti dell’ex moglie. Nonostante questo, rimane un punto di riferimento in parrocchia, tanto che a Pasqua 2022, durante la celebrazione della settimana santa, lo si vede portare il Cristo morto in processione e compare anche sull’altare lo scorso settembre, in occasione della ricorrenza di Maria Santissima dell’Alemanna, patrona di Gela>>. Quell’inchiesta esce su Domani il 14 novembre 2022, quattro giorni prima che la Cei (Conferenza episcopale italiana) affronti il tema in occasione della giornata nazionale di preghiera della chiesa italiana per le vittime e i sopravvissuti agli abusi. Interpellato dal quotidiano nell’occasione Gisana preferisce non rispondere.

In diocesi e parrocchie tanti nipotini-epigoni del don Gaetano di Todo modo,

e per Gisana <<è una fortuna che la vittima non abbia denunciato>>

Il processo-Rugolo porta alla luce una realtà che sembra popolata da tanti nipotini del don Gaetano tratteggiato da Leonardo Sciascia in Todo Modo. Realtà che non è certamente presente solo a Piazza Armerina ma che qui questo accidentale dibattimento fa emergere forse senza troppi veli. Da un’intercettazione letta in aula si apprende che un sacerdote ha abusato di un minorenne, in seguito divenuto prete. Nella telefonata Gisana dice espressamente  <<è una fortuna che la vittima non lo abbia mai denunciato (sic! n.d.r.) perché altrimenti sarebbe stato certamente ridotto allo stato laicale>>: la pena massima, come quella comminata all’innocente Nello Dell’Agli il quale però non aveva fatto nulla per essere accusato, né, tanto meno, condannato. Sembra che secondo questi uomini di chiesa investiti d’alta responsabilità debbano essere condannati gli innocenti e prosciolti i colpevoli: meglio se con la minore fatica offerta in dono da una mancata denuncia. E se il dono spontaneo non c’è, pazienza, lo si acquista o lo si ottiene con ogni mezzo.

Dinanzi al tribunale il ragazzo abusato da Rugolo aggiunge: «Entrambi, l’abusatore e la sua vittima sono stati nominati dal vescovo parroci in due chiese della diocesi nelle due settimane precedenti l’udienza. La vittima, insomma, premiata per il suo silenzio>>. E alla richiesta di spiegazioni da parte del difensore di parte civile il vescovo si sottrae di scatto: «E questo che c’entra?». E’ l’udienza fiume del 10 ottobre 2022: Gisana esita, si confonde, non ricorda. Di fronte alle contestazioni delle sue dichiarazioni intercettate e rilette in aula si contraddice, annaspa e il procuratore lo richiama più volte ammonendolo «a mettersi d’accordo con sé stesso».

E’ incredibile come tutto questo emerga unicamente perché in un caso, uno solo dei tanti (altrimenti non sapremmo niente) la vittima non si sia fermata all’uscio della ‘sua’ chiesa, dopo avere bussato per sette anni invano alla porta e abbia finalmente cambiato strada e scelto l’indirizzo giusto: la magistratura penale che in territorio italiano (dove si trovano Enna e Piazza Armerina che, come ogni canonica e sacrestia in Italia e nel mondo, non sono zone franche né repubbliche sovrane) ha competenza esclusiva nell’accertare e perseguire i reati. Da quarant’anni è così anche per il diritto canonico, da quando nel 1983 viene abolito il privilegium fori che, da Costantino in poi per oltre mille e seicento anni, ha sottratto i chierici alla giurisidizione, civile e penale, del giudice statale.

E senza di quella denuncia all’unico giudice dimostratosi degno, non sapremmo neanche come vengano utilizzati i fondi dell’otto per mille, un miliardo di euro l’anno donati alla Chiesa cattolica dai contribuenti italiani.

Soldi dell’otto per mille per la difesa del prete imputato di abusi sessuali

e per l’avvocato del vescovo-testimone (che bisogno ha del legale?)

Dal processo di Enna si apprende che Gisana <<ha coperto ventimila euro di un debito di don Rugolo nell’ottobre 2019, a cui ha aggiunto altri quindicimila nell’estate del 2021 perché il prete lamentava di non farcela nel suo esilio ferrarese soltanto con i soldi della retta>>. Inoltre le spese legali di Rugolo e l’anticipo di quelle per l’avvocato del vescovo: altri venti mila euro, prelevati sempre dai fondi dell’otto per mille, mentre i 25 mila euro per il silenzio della vittima come abbiamo visto, se il supposto accordo fosse andato in porto, sarebbero stati prelevati dalle casse della Caritas e versati in contanti.

Singolare anche pagare migliaia di euro per un avvocato di cui Gisana non dovrebbe avere bisogno. Egli non è indagato ma solo testimone: se avesse a cuore solo la verità e la tutela delle vittime di eventuali abusi, nonché i giusti interessi della diocesi (i quali non dovrebbero potere risiedere in nient’altro che nella verità e in tale tutela), che bisogno avrebbe di un legale per rendere testimonianza nel processo intentato dallo Stato italiano contro un prete accusato di abusi sessuali su minori?

Lo scudo della confessione, da sacramento a strumento di omertà

e menzogna giudiziaria: le istruzioni a Gisana dal consigliori in Vaticano

Qualche risposta alla domanda ce la dà un altro tema scabroso emerso dal processo: lo scudo giudiziario della confessione, ‘sacramento’ ridotto a strumento di omertà e menzogna giudiziaria. Sentito come persona informata dei fatti nel gennaio 2021, Gisana dichiara di non avere avuto altre segnalazioni a carico del sacerdote sotto accusa, a parte quella già nota di Antonio Messina, e omette di rendere noto agli inquirenti che un altro ragazzo già nel 2015 è andato da lui a denunciare abusi ad opera dello stesso don Rugolo.

Le intercettazioni ci consegnano un vescovo preoccupato per questa sua reticenza, tanto da sentire il bisogno di parlarne con il fidato vicario Rivoli e concordare la strategia più utile per celare la verità: «E quindi, non so… per questa cosa… eventualmente gli dirò: io ho avuto delle confessioni, le confessioni non si dicono, mi dispiace!». Ma non si sente totalmente tranquillo e cerca, prima e dopo l’interrogatorio, ulteriori consigli e rassicurazioni. Che trova – documentano le intercettazioni –  in un tale don Paolo il quale risponde da un’utenza del Governatorato di Città del Vaticano. Il prezioso consigliere pontificio prima lo invita a non andare da solo in procura ma a farsi accompagnare dall’avvocato, e poi lo rassicura dicendogli che ha fatto bene a non raccontare di quell’ulteriore denuncia del 2015, perché per la legge canonica non può riferire né il contenuto né il fatto stesso dell’avvenuta confessione. Quando a marzo viene sentito nuovamente dal procuratore – ricostruisce Federica Tourn nell’inchiesta di Domani –  il vescovo decide comunque di correggere il tiro e ammette di avere parlato con il ragazzo il quale gli ha segnalato gli abusi ma, appunto, solo in confessione, ma la circostanza è smentita in udienza dall’interessato: <<no, non solo in confessione, anche in un colloquio privato, in curia>>.

Il campione di lotta alla pedofilia don Fortunato Di Noto invita il vescovo

a vigilare, non sull’abusatore ma sulla vittima: “traccia i colloqui”

Le indagini degli inquirenti e l’impietoso bagno di realtà offerto dalle intercettazioni ci consegnano un campione di lotta ai crimini della pedofilia e della pedopornografia come don Fortunato Di Noto, il missionario delle periferie digitali, nella veste di ‘spalla’ del vescovo insabbiatore. Intercettato dice a Gisana <<ti voglio un bene dell’anima>> e gli consiglia << vigilanza>>. A tutela dei minori abusati e contro gli abusatori? Non proprio. E’ lui stesso a spiegare al vescovo su cosa e in che modo debba essere vigile: <<se ci riesci traccia almeno i colloqui (con Messina, la vittima di Rugolo, e la sua famiglia, n.d.r) perché questi qua come stanno montando la cosa, capisci…>>.

I guai per Gisana sono sempre in agguato, forse al di là delle sue colpe. Ce lo dicono sempre le intercettazioni, pur nel breve periodo in cui esse sono eseguite. Apprendiamo così che un giorno gli chiede udienza, tramite il fido vicario Rivoli, un colonnello dei carabinieri, Saverio Lombardi, all’epoca al vertice del comando provinciale di Enna. Un incontro riservato al quale l’ufficiale si presenta in abiti comuni. Motivo e tema dell’incontro? Lo spiega Gisana agli inquirenti: <<Lombardi venne a suggerirmi di cambiare avvocato in quanto quello che avevo era coinvolto in un’inchiesta per associazione mafiosa>>. Parola di colonnello il quale però – apprendiamo da Gisana – non offre i suoi servigi disinteressatamente ma chiede qualcosa in cambio: i favori del vescovo per entrare nell’ordine dei cavalieri del Santo sepolcro.

Vero o no che il legale di Gisana, prescelto pare su indicazione di Rivoli, sia coinvolto in indagini per mafia, inquieta la richiesta dell’ufficiale, poi trasferito a causa dell’improvvida missione in curia e processato per corruzione: inquieta non tanto per lui, quanto per il vescovo.

L’ufficiale dei carabinieri, il vescovo e i cavalieri del santo sepolcro:

ordine ridotto ad una specie di P2 con affaristi, mafiosi e uomini di chiesa

La storia e numerosi atti d’indagine, nonché relazioni di commissioni parlamentari antimafia, dicono che, almeno in Sicilia, dagli anni ’70 del secolo scorso e fino a tempi recenti, l’ordine dei cavalieri del Santo sepolcro è una specie di P2, una stanza degli scambi tra affaristi di ogni tipo, alti prelati, mafiosi, politici, uomini dello Stato: a decine colonnelli, generali, questori, prefetti. A lungo ne è luogotenente Arturo Cassina, monopolista quarantennale degli appalti pubblici a Palermo in ‘quota mafia’ ai tempi della Dc di Giovanni Gioia, Salvo Lima e Vito Ciancimino, nonché pilastro a Palermo della rete stesa da Cosa nostra nelle cui trame è possibile imbattersi nel parroco mafioso Agostino Coppola o nel vescovo in odor di mafia (di Cefalù e poi di Monreale) Salvatore Cassisa il quale dei cavalieri del Santo sepolcro ne è all’epoca grand’ufficiale.

Giovanni Falcone colloca questi improbabili ‘difensori della cristianità’ in un sistema di potere marcio che comandava più d’ogni altro a Palermo. Le sue parole, diversi anni dopo la morte, ispirano alle vedove di mafia Agnese Borsellino e Rita Bartoli Costa, nonché alla sorella Maria Falcone un accorato appello al Vaticano perché ripulisca quell’ordine, chiudendo le porte girevoli del transito interno con la mafia e ciò che rimane della P2, facendone cessare la disinvolta coabitazione: appello inascoltato.

Non sappiamo cosa Gisana abbia risposto a quella richiesta di raccomandazione dell’ufficiale dei carabinieri, né se l’abbia assecondata, ma certo è che alcuni guai lo raggiungono senza che si possa dire che abbia fatto poi così tanto per procurarseli. Come, c’è da presumere, nella vicenda dell’arresto per corruzione, a maggio 2022, di don Giovanni Tandurella, parroco della cattedrale di Piazza Armerina sede del vescovado, che egli tre anni prima ha nominato e poi, nonostante da tempo si sappia delle indagini, mantenuto nel prestigioso incarico fino all’arresto. Quando viene indagato, quel parroco così importante nella diocesi si dimette solo dalla gestione dell’otto per mille che è nelle sue mani. L’inchiesta ruota intorno alla gestione della casa d’ospitalità ‘Antonietta Aldisio’ di Gela, l’ex Opera pia oggi istituto pubblico d’assistenza e beneficenza, e riguarda quindici indagati, con il parroco in posizione centrale a rispondere, per dei lasciti utilizzati a fini personali, anche di falso, circonvenzione d’incapace, appropriazione indebita, riciclaggio.

E’ lecito definire relazioni sessuali quelle tra un prete e minori?

L’inciampo di Gisana che gli costa anche l’accusa di omofobia

In questa stessa categoria di guai  per così dire ‘preterintenzionali’ possiamo collocare l’effetto di certe dichiarazioni sul conto degli omosessuali. Le riprende Federica Tourn nella sua inchiesta dopo che esse risuonano in dibattimento.

A differenza delle versioni ufficiali <<al telefono con sacerdoti amici – annota la giornalista – è però tutta un’altra musica: fra bestemmie e imprecazioni, don Rivoli non risparmia epiteti nemmeno per i Messina, che ritiene responsabili di aver fatto emergere la vicenda, e per don Giuseppe Fausciana, il parroco di Enna che ha incoraggiato Antonio a denunciare il suo abusatore e che, secondo il vicario, sarebbe stato spinto da gelosia nei confronti di Rugolo. Qui la torbida vicenda assume i toni del più crudo neorealismo. Il vescovo Gisana al telefono spaccia a un altro prete, tale don Angelo, la teoria che il ragazzo abbia dichiarato di essere stato violentato per giustificare la propria omosessualità a spese di don Rugolo>>

E qui torniamo all’intercettazione: «Tu li conosci questi omosessuali, non è che noialtri – dice Gisana – veniamo da Marte, sono fatti così: amano o odiano in maniera viscerale, questa è una pura vendetta di una persona innamorata e che è stata respinta».

Una frase detta per minimizzare, forse, la portata del caso che però la vittima di Rugolo segnala al tribunale come discriminatoria: «In aula sono emersi chiaramente i pregiudizi di Gisana nei confronti degli omosessuali. Il vescovo ha messo in dubbio l’attendibilità delle mie accuse sulla base della mia identità sessuale».
Omofobia e pregiudizi vanno a inquinare ulteriormente un clima già avvelenato, pieno di segreti e gelosie. Eppure Gisana, alla fine degli anni ’80, quando era un giovane prete ordinato da poco – dà atto Federica Tourn – aveva un atteggiamento diverso verso le persone lgbt. Disponibile e accogliente, aveva anche supportato a Modica, la sua città natale, la fondazione dei Fratelli dell’Elpis, un gruppo di credenti gay. «Don Rosario era la mia guida spirituale e in un clima che nella chiesa e nella società era di totale chiusura sul tema, lui era l’unico a parlare dell’amore omosessuale come di una cosa normale» testimonia Carmelo Roccasalva, fondatore dell’Elpis. Dato che all’epoca Carmelo non ha ancora fatto coming out in famiglia, don Gisana gli mette a disposizione l’indirizzo di casa sua per la posta dell’Elpis, fino al trasferimento del gruppo nella chiesa del ‘Santissimo crocifisso della buona morte’ a Catania. È talmente determinante l’influenza di Gisana sui primi anni dell’Elpis che nel 2015 è chiamato a partecipare come ospite, insieme all’arcivescovo di Catania Salvatore Gristina, alla celebrazione del venticinquesimo anniversario del gruppo parrocchiale. Difficile – conclude Tourn – far combaciare il ritratto del giovane sacerdote progressista dipinto da Roccasalva con il vescovo a cui oggi viene chiesto di dare conto delle dichiarazioni omofobiche nei confronti di un ragazzo vittima di abusi.

Quante tegole su Gisana: l’arresto del sacerdote, frate francescano

che in convento nasconde soldi in contanti, armi e passamontagna

Cinque mesi dopo l’arresto del parroco della cattedrale di Piazza Armerina Giovanni Tandurella, il 13 ottobre 2022 ecco una nuova tegola sulla testa del vescovo: l’arresto di un altro sacerdote della diocesi, Rosario Buccheri, ex carabiniere, francescano dell’ordine dei frati minori conventuali che ad inizio dell’anno Gisana nomina cappellano del carcere di Enna. Proprio in questa funzione viene sorpreso a cedere ad un detenuto un panetto di hashish. E nella sua stanza in convento gli vengono sequestrati un fucile a canne mozze con matricola abrasa, una pistola, tantissime munizioni, un taser, un passamontagna e 35 mila euro in contanti. Difficile pensare che siano il ricavato di elemosina, risorsa naturale e preziosa – fin dalla regola del 1223, esattamente ottocento anni fa – di questo ‘ordine mendicante’ fondato da Francesco d’Assisi.

Tornando alla linea principale del percorso seguito, riprenderemo nella prossima puntata il filo, anche cronologico, dei fatti del cosiddetto affaire-Salonia. A conclusione di questa digressione dettata dalle figure in campo e – in questo caso soprattutto – dalla bufera giudiziaria del caso-Enna che investe il vescovo Gisana, è giusto ricordare che tutto ciò accade – rectius, continua ad accadere – anche dopo e nonostante i passi importanti compiuti da papa Francesco rispetto ai predecessori. Abbiamo citato il Motu proprio ‘Vos estis lux mundi’ che fa cadere l’obbligo del segreto sugli abusi: ‘semplicemente doveroso’ si deve osservare. Ma come è stato possibile che tale obbligo avesse legittimazione e sanzione pontificia fino al 2019, settimo anno del papato di Bergoglio che comunque ha il merito di averlo rimosso, mentre i predecessori lo hanno sempre pervicacamente mantenuto?

Da due anni peraltro nelle chiese locali il 18 novembre si celebra la Giornata nazionale di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi, per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili: istituita nel 2021 in corrispondenza della Giornata europea per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale.

Nel contempo in alcune diocesi si coglie un fermento positivo di cambiamento con iniziative, centri di ascolto, l’uso aperto di parole nuove, sensibilizzazione delle vittime alla denuncia, nonchè del clero a cambiare abitudini, con l’ausilio di dati, dossier statistici, percorsi tracciati e direttive da parte di organismi vaticani in coerenza con il nuovo corso annunciato. Ma in tante altre realtà, centrali e locali, si continua a remare nella stessa direzione di sempre.

In proposito il focus sulla diocesi di Piazza Armerina risuona impietoso, forte e chiaro, come un allarme angosciante e rivoltante: sarebbe un errore considerarlo una spiacevole eccezione e non, quale invece è, la spia di un fenomeno ordinario, capillare e diffuso in gran parte delle 226 diocesi, delle 25 mila parrocchie e delle cento mila chiese italiane. Esso ci racconta molto anche sul tema generale della vera realtà interna della Chiesa, della sua comunità, delle sue lotte interne tra certe spinte al bene e vecchie, oscure, ciniche logiche di potere capaci di piegarlo con ogni delitto. Tra i più gravi e imperdonabili figura quello delle violenze e degli abusi sessuali su minori e persone fragili, nonchè della sistematica copertura dei responsabili come regola immutabile di vita e di sopravvivenza: ecco perchè si è resa necessaria, sul tema della giustizia (inGiustizia Vaticana), questa tappa nell’inchiesta partita dall’ingiusta condanna canonica di un sacerdote e approdata a quella del giallo intorno alle vicende del ‘quasi vescovo’ costretto a rinunciare al soglio episcopale, proprio per tali vicende, affiorate anche in sede penale, sulle quali il primo testimonia.

2 – continua