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“Paolo Borrometi va condannato”, la Procura impugna l’assoluzione: definì ‘mafioso’ Mormina pur sapendo che da tempo era stato assolto. Savarese, legale di parte civile: appello necessario per una battaglia di civiltà giuridica. I fatti oggetto del processo sono quelli che determinarono l’assurdo scioglimento degli organi del Comune di Scicli che, al contrario, respingevano le infiltrazioni mafiose

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Paolo Borrometi diffamò Francesco Mormina e va condannato. E’ la richiesta reiterata dalla Procura di Ragusa nell’atto d’appello per la riforma della sentenza del Tribunale che il 16 gennaio scorso ha assolto il giornalista dall’accusa di diffamazione a mezzo stampa.

I fatti risalgono al 2018 quando in tre articoli, pubblicati tra l’1 e il 4 dicembre di cinque anni fa, la testata giornalistica La Spia diffusa telematicamente e di cui è direttore responsabile Borrometi (dichiaratosi anche autore dei primi due) definì Mormina ‘capomafia di Scicli’.

Mormina era stato arrestato il 7 giugno 2014 insieme ad altre quattro persone nell’ambito dell’operazione Eco che ne vide indagate anche altre sei – tra cui l’allora sindaco Franco Susino – tutte accusate di associazione mafiosa.

Accusa del tutto infondata e priva di ogni elemento di riscontro (eppure decisiva per lo scioglimento degli organi comunali democraticamente eletti) come fu accertato per tutti gli imputati fin dal primo grado di giudizio sfociato nella sentenza emessa dal Tribunale di Ragusa l’11 luglio 2016.

Peraltro anche l’accusa di associazione per delinquere semplice, comminata in primo grado ad alcuni imputati tra cui Mormina, era già caduta totalmente nella sentenza della Corte d’Appello di Catania emessa il 18 maggio 2018, sette mesi prima della pubblicazione da parte di Borrometi degli articoli in cui il giornalista – sotto scorta dal 2014, nei mesi successivi all’operazione Eco eseguita il 7 giugno – lo definisce ‘capomafia di Scicli’.

L’esito definitivo di quel processo per Mormina sarà di condanna per tentativo di violenza privata e per furto di carburante. E tutto ciò (tentata violenza privata e furto di carburante!) è la sola verità che rimane alla base di quella gigantesca mistificazione con la quale – asserendo falsamente l’esistenza di interessi mafiosi nei luoghi e nelle sedi in cui (l’amministrazione-Susino e il consiglio comunale) in effetti essi venivano combattuti e soprattutto venivano respinte le aggressioni affaristiche dei signori delle discariche – lo Stato, grazie a suoi corpi o pezzi deviati (dal ‘Sistema Lumia-Crocetta-Montante al ministro Alfano che questi teneva in pugno, alla corruzione giudiziaria del ‘Sistema-Siracusa’) decretò lo scioglimento di quegli organi istituzionali che erano presidio di legalità, per far posto ad apparati sostitutivi poi dimostratisi disponibili a recepire le istanze negate da un sindaco per bene, da assessori per bene e da un consiglio comunale per bene.

La sentenza che ha riconosciuto Mormina colpevole solo di furto di carburante e tentata violenza privata (quest’ultimo un reato minore che tutela la libertà morale contro azioni di molestia o disturbo) è stata poi confermata anche dalla Corte di Cassazione a conclusione del processo scaturito da quell’operazione Eco rivelatasi (per quanti eventualmente siano stati in buona fede tra investigatori e inquirenti) un inspiegabile abbaglio ed una enorme cantonata.

Il processo per diffamazione a mezzo stampa che vede imputato Borrometi è sfociato il 16 gennaio scorso nella sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di Ragusa e depositata il 13 aprile, in quanto le notizie riportate sono state considerate rientranti nella ‘scriminante’ del diritto di cronaca e di critica.

Contro questo assunto si muove ora il procuratore Fabio D’Anna il quale nell’atto d’appello presentato contesta le conclusioni del Tribunale e così ricostruisce: <<come emerso dalla, per certi versi, sovrabbondante istruttoria dibattimentale e in particolare dall’esame della persona offesa, dai testi del pm, dai testi di parte civile, da quelli auditi ex art. 195 c 3 cpp (le cosiddette ‘testimonianze indirette’ n.d.r) e dalle stesse ammissioni del Borrometi in sede di esame>> il primo dei due articoli scritti dall’imputato, quello pubblicato il primo dicembre 2018 <<riguardava l’avvenuta inaugurazione a Scicli dì una asserita sala giochi (in realtà poi essersi rivelato un semplice internet point) ed era titolato ‘Il capomafia di Scicli inaugura le sale scommesse in Città’. Oltre a contenere foto raffiguranti il Mormina all’interno del locale inaugurato, l’articolo si apriva con l’affermazione ‘Franco Mormina detto u Trinchitu capomafia di Scicli, inaugura sale scommesse nella città’ con tanto di selfie e post su fàcebook con tanto di like’ e proseguiva con l’affermazione ‘Mormina, il boss e capomafia sciclitano (secondo le relazioni della Direziona Nazionale Antimafia e della Direzione Investigativa Antimafia)’.

<<Il secondo dei due articoli, pubblicato il 4 dicembre 201 8 era invece titolato ‘Chiuso centro scommesse inaugurato dal boss dì Scicli Franco Mormina. In entrambi gli articoli – rileva il magistrato – il giornalista ha attribuito al Mormina una specifica qualifica, quella di ‘mafioso’ che tuttavia non ha trovato riscontro, all’esito della compiuta istruttoria, in alcun provvedimento giurisdizionale definitivo>> conclude il procuratore ricordando i passaggi della vicenda cui in questo articolo abbiamo accennato all’inizio e che mai hanno visto Mormina imputato di reati di mafia, con la sola eccezione di quella ricordata dalla quale era stato assolto ‘perché il fatto non sussiste’ già l’11 luglio 2016, due anni e mezzo prima degli articoli di Borrometi, e successivamente, a luglio 2018, era stato assolto anche dall’accusa di associazione per delinquere semplice.

D’Anna richiama poi la giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui:

<<la scriminante, anche solo putativa, dell’esercizio del diritto di cronaca è configurabile solo quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare l’oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio>> (Sez.5, n. 51619 del 17/10/2017, Tassi, Rv. 271628); <<l’esimente, anche solo putativa, del diritto di cronaca giudiziaria non può essere affermata in ragione del presunto elevato livello di attendibilità della fonte se il giornalista non ha provveduto a sottoporre al dovuto controllo la notizia>> (Sez. 5, n. 23695 del 05/03/2010, Brancato, Rv. 247524);

<<l’esimente, anche solo putativa, del diritto di cronaca giudiziaria può essere invocata in caso di affidamento del giornalista su quanto riferito dalle sue fonti informative, non solo se abbia provveduto comunque a verificare i fatti narrati, ma abbia altresì offerto la prova della cura posta negli accertamenti svolti per stabilire la veridicità dei fatti>> (Sez. 5, n. 27106 del 09/04/2010, Ciolina, Rv. 248032).

<<Il diritto di cronaca come diritto d’informare e di essere informati – osserva ancora D’Anna a conclusione delle sue argomentazioni di diritto – è, come noto, espressamente tutelato dall’articolo 21 della Carta Costituzionale. La libertà di informazione, e per essa il diritto di cronaca quale espressione della libertà di pensiero, è poi tutelata anche in ambito sovranazionale dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 1948 e dall’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché dalla Carta di Nizza, che, all’articolo 11, riconosce non solo la libertà di ricevere e di comunicare informazioni ma anche il pluralismo dei mezzì di informazione. In particolare il diritto di critica, non si manifesta solamente nella semplice esposizione dell’opinione del soggetto in determinate circostanze, ma si caratterizza per essere una interpretazione di fatti considerati di pubblico interesse, avendo di mira non l’informare, bensì l’interpretare l’informazione e, partendo dal fatto storico, il fornire giudizi e valutazioni di carattere personale. Dunque, il diritto di critica riveste necessariamente connotazioni soggettive ed opinabili, soprattutto quando si svolge in ambito politico, in cui risulta preminente l’interesse generale al libero svolgimento della vita democratica. Proprio perché l’esercizio del diritto di critica non si concretizza nella mera narrazione di fatti, bensì nell’espressione di un giudizio e, più in generale, di un’opinione, perché assuma valenza scriminante è necessario che venga esercitato entro precisi limiti, individuati essenzialmente nel limite dell’interesse pubblico alla conoscenza di fatti e di opinìoni, nel limite della continenza espressiva e in quello della verità dei fatti posti a fondamento della critica>>.

Alla luce di tali principi – conclude il procuratore – deriva che la circostanza dell’asserita ‘mafiosità’ del Mormina, personaggio delle cui vicende giudiziarie il Borrometi si era più volte occupato anche in passato pubblicando sul sito La spia numerosi articoli, avrebbe dovuto essere fatta oggetto di particolare verifiça dal giornalista, alla luce dell’intervenuta assoluzione dal reato di associazione a delinquere di tipo mafioso e, per quanto attiene al reato per cui è stato condannato, alla mancata contestazione dell’aggravante del metodo mafioso. Era cioè onere dell’imputato dimostrare di avere effettuato accurate verifiche sulla veridicità di quanto da lui pubblicato, a maggior ragione trattandosi di una vicenda che lo aveva visto impegnato in inchieste giornalistiche risalenti nel tempo e connesse con lo scioglimento del consiglio comunale di Scicli del 2015, oggetto di una recente relazione della Commissione parlamentare regionale antimafia. Tale onere, contrariamente a quanto ritenuto del Giudice, non è stato assolto>>.

In effetti nei suoi articoli Borrometi sembrava volere ricondurre la definizione di Mormima quale boss mafioso all’analoga espressione contenuta in relazioni della Dna e della Dia ed anche a questo fine è stato citato in giudizio Mario Giarrusso, all’epoca senatore e componente della Commissione parlamentare antimafia il quale però ha solo detto di avere letto qualche relazione in proposito senza produrre il documento e senza portare alcun elemento utile al riguardo, anzi trincerandosi dietro una non meglio precisata secretazione di atti. In realtà se mai tali atti fossero esistiti essi sarebbero stati niente di più che informative di semplici operatori di polizia giudiziaria assorbite nell’inchiesta e del tutto smascherate, nella totale infondatezza dell’assunto mafioso che aveva fantasticato di una cosca sgominata dall’operazione Eco la cui ‘utilità’ funzionale consiste solo negli effetti di quell’atto assurdo e aberrante che è stato lo scioglimento degli organi democraticamente eletti del Comune di Scicli.  Per la cronaca la querela di Mormina riguardava non solo Borrometi ma anche Giarrusso, ma nei confronti dell’ormai ex senatore la Procura non esercitò l’azione penale.

Per la cronaca il teste Giarrusso aveva dichiarato in udienza, come ricostruisce oggi l’atto d’appello –  che <<in ragione della sua partecipazione alla Commissione Antimafia quale membro nominato al Senato aveva avuto contezza che il ‘Mormina fosse un soggetto attenzionato dalla Commissione Antimafia” e che “quando la Commissione Antimafia viene sui territori (abbiamo) (del)le relazioni fatte dalla Prefettura (che) sono secretate, come tutte le attività fatte in trasferta dalla Commissione Antimafia” spiegando poi di avere visionato, in quanto aveva preso parte alla missione, “sia la relazione che ha fatto il Prefetto e che poi deposita in maniera cartacea alla Commissione Antimafia. E questa relazione è secreta/a … E poi ci sono anche le altre quelle pubbliche della DIA e della Procura Nazionale antimafia, aggiungendo a chiarimento: “Quindi io dico, attenzione potrebbe non essere agli atti. Non lo so se c’è. Non conosco gli atti del processo o quelli depositati dalle parti attenzionate, nemmeno io ce li ho. Li ho visionati. E poi rimangono in Commissione Antimafia”>>.

In proposito scrive D’Anna nell’atto d’appello: <<A tal fine nessun pregio può essere addotto, come invece fatto dal riconoscimento dell’esimente putativa del diritto di cronaca, a quanto riportato dal giudice in seno alle relazioni semestrali della Dia (Direzione investigativa antimafia) e della Dna (Direzione nazionale antimafia). Premesso che nessuna relazione della Dna è stata depositata o altrimenti acquisita nel corso del dibattimento, di tal chè appare del tutto apodittico il loro richiamo, quanto alle relazioni semestrali della Direzione investigativa antimafia non può non convenirsi che le stesse, è noto, contengono considerazioni ed ipotesi investigative, alcune delle quali risalenti nel tempo, che spesso, come nel caso di specie, non resistono al vaglio giurisdizionale e restano relegate a mere ipotesi indimostrate. Riprova ne è che nella relazione relativa al secondo semestre 2018 … viene fatto riferimento ad una generica denuncìa dei CC della Stazione di Ispica nei confronti di presunti appartenenti al cosiddetto Gruppo Mormina, senza alcuna indicazione nominativa, di cui non vi è tuttavia alcuna traccia processuale. Ulteriore riprova ne è che, sebbene come esattamente osservato in sentenza, la sentenza assolutoria riguardasse fatti commessi non oltre il mese di giugno 2014, e nonostante ‘l’interesse investigativo suscitato’ (deposizione del Garrusso) fino al Dicembre del 2018 (ed anche successivamente per come emerso nel corso dell’istruttoria dibattimentale) il Mormina non risulta essere stato più iscritto nel registro degli indagati per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. o per reati aggravati dal metodo mafioso. Del tutto irrilevante è poi la circostanza che nel corpo dei due articoli siano state riportate circostanze veritiere afferenti a profili che esulano dalle contestazioni mosse. Anche i testi della difesa (tra i quali Filippina Cocuzza, all’epoca prefetto di Ragusa n.d.r.) si sono limitati a generici riferimenti alle condotte tenute dal Mormina ante 2014, ma nulla hanno detto circa ulteriori e diversi elementi volti a comprovare la ‘mafiosità’ del Mormina>>.

D’Anna chiede quindi che la Corte d’Appello riformi la sentenza impugnata e condanni Borrometi.

L’appello del procuratore fa seguito a quello proposto dalla parte civile rappresentata dall’avvocato Michele Savarese che aveva rilevato come dall’istruttoria dibattimentale sia <<emersa la piena responsabilità penale dell’ imputato in ordine al reato allo stesso contestato>> e che in una dichiarazione alla stampa sottolinea come la sua assistenza legale in questo processo sia stata improntata anche alle esigenze di una battaglia di civiltà giuridica e di principi di tutela fondamentali del nostro ordinamento.

<<Non vi è infatti alcun dubbio – si legge nell’atto d’appello della parte civile – sul fatto che il Borrometi, abbia volontariamente offeso la reputazione del Sig. Franco Mormina, pubblicando articoli diffamatori sul sito on line www.laspia.it in cui più volte la persona offesa veniva etichettata come il capomafia di Scicli. Paolo Borrometi, come da lui stesso dichiarato in sede di esame dell’ imputato, è un giornalista professionista, laureato in giurisprudenza, che si occupa prevalentemente di casi legati alla criminalità organizzata di stampo mafioso. In particolare per divulgare i suoi articoli utilizza il sito on line www.laspia.it  Dal suo certificato del casellario giudiziale, agli atti, risulta che in data 22.07.2019 il G.i.p, presso il Tribunale di Ragusa ha disposto l’ archiviazione di un procedimento penale a suo carico, proprio per il reato di diffamazione, per particolare tenuità del fatto. Inoltre risulta imputato nei procedimenti penali riuniti n. 2534/2020 R.G.N.R. e 3331/2020 della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ragusa, la cui prossima udienza è stata fissata per il giorno 08.06.2023 davanti al Tribunale di Ragusa, per il reato di diffamazione aggravata, poiché avrebbe offeso la reputazione del Presidente e dei membri della “Commissione parlamentare di inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia”, mediante l’ utilizzo del noto social network denominato “Facebook”, in data 20.04.2020. In base a quanto sopra emerge che l’ imputato sa perfettamente che nel nostro ordinamento giuridico è solo la magistratura che può decretare l’ appartenenza di un soggetto ad un’organizzazione criminale di stampo mafioso. Pertanto le affermazioni della polizia giudiziaria sono del tutto prive di rilievo se non confermate dai Giudici. Questo è un principio della nostra civiltà giuridica alla base dello stato di diritto>>.

Per tali ragioni Savarese chiede la riforma della sentenza ritenendo illogico il ragionamento del Tribunale che <<arriva a giustificare il comportamento del giornalista sostenendo che la Corte d’ Appello di Catania in relazione al giudizio nei confronti del Sig. Franco Mormina, fa riferimento ad un arco temporale fino al mese di Giugno del 2014>>, pertanto lasciando intendere <<che dopo il 2014 potrebbero essersi verificate ulteriori condotte mafiose addebitabili alla persone offesa. Ciò è assurdo>> spiega il legale perché <<Franco Mormina dopo il procedimento conclusosi davanti alla Corte etnea, non è mai stato imputato di reati commessi quale appartenente alla criminalità organizzata. Borrometi pertanto quando ha scritto l’ articolo, sapeva benissimo che Franco Mormina non è mai stato legato alla mafia, ma nonostante ciò ha deciso di diffamarlo. Del resto, il comportamento di Borrometi è chiaramente diretto a ledere la reputazione della persona offesa, infatti non si comprende per quale motivo il giornalista abbia creato un clamore mediatico su una vicenda priva di qualunque rilievo penale e/o amministrativo e poi non abbia dato la notizia che il presunto centro scommesse, in realtà un internet point, in cui era presente il Sig. Mormina, fu subito dissequestrato dal Tribunale di Ragusa. La sentenza di assoluzione, volta a trovare una giustificazione nel comportamento del Borrometi, arriva a sostenere che in realtà le dichiarazioni dell’imputato trovano conferma nelle relazioni della direzione investigativa antimafia. Ciò è ulteriormente illogico per due motivazioni: le relazioni non citano mai il nominativo del Sig. Franco Mormina; lo si ribadisce, non si può dare credito alle relazioni della polizia giudiziaria se le stesse non sono confermate dalla magistratura. Queste circostanze – conclude Savarese – erano note a Borrometi, il quale, con coscienza e volontà, ha offeso Franco Mormina pur conoscendo la sua totale estraneità alla criminalità organizzata di stampo mafioso>>.