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Giovanni Spampinato, ‘L’Ora della verità’. La ricostruzione storica nel libro del fratello Salvatore è chiara: ‘naufragio’ giudiziario, istituzioni deboli o colluse, stampa subalterna o complice, società distratta. Ora bisogna sanare la ferita, per la memoria, per la coscienza civile e per la Giustizia

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Un assassinio lucidamente pianificato e preparato in ogni dettaglio, compresa la confessione – falsa, parziale e distorta – divenuta verità processuale

Mezzo secolo dopo la sua morte, Giovanni Spampinato ci parla ancora, ci agita e ci scuote proiettando sul piano inclinato della nostra coscienza – di esseri umani e di cittadini – l’orrore della verità rubata, negata, impedita. Un orrore non meno grave, e ancora meno accettabile, del suo stesso assassinio fisico; più scandaloso e lancinante dei colpi di pistola che lo hanno ucciso.

Un orrore vivo e presente, perché ancora assente è la verità, nascosta e travolta dal naufragio della giustizia che per non processare sé stessa e i suoi indifendibili interpreti osa liquidare quasi come un accidente l’omicidio – invece perfettamente pianificato – di un giornalista onesto, libero, bravo e coraggioso, e di archiviarlo come il gesto d’impeto di uno psicopatico il quale in un certo momento fatale si trovi inavvertitamente, ben cariche, due pistole in tasca: però appositamente acquistate venti giorni prima, illegalmente nell’inerzia della Questura pur informata.

Il libro (‘Giovanni Spampinato, assassinato perchè cercava la verità’, Edizioni Operaincerta, ottobre 2022) scritto oggi da Salvatore Spampinato, appena sedicenne quando il fratello Giovanni viene ammazzato, è senza dubbio il contributo più lucido e avanzato finora mai portato alla ricerca della verità a suo tempo negata nelle aule giudiziarie, insieme alla giustizia che ad essa era – ed è – indissolubilmente legata.

Lo è per la completezza della ricerca documentaristica, per l’analisi di tutte le fonti disponibili, per lo studio dei fascicoli processuali.

Indagini giornalistiche e ricostruzioni storiche di pregio, come quelle di Luciano Mirone nel ’99 e Carlo Ruta nel 2005 e successivamente, quindi trent’anni dopo e oltre, vi sono state. Mai però finora uno sforzo di questo tipo – unitario, complessivo, coerente – era stato compiuto.

Leggendone ogni pagina si percorrono i sentieri più vicini alla verità storica.

Nel libro non ci sono solo la figura di Giovanni, ucciso dieci giorni prima che compisse ventisei anni; il suo tratto caratteriale intelligente e gentile, la passione politica mossa da ideali di verità e giustizia sociale, il suo etico fervore intellettuale, l’ampiezza e la ricchezza dell’orizzonte culturale, il lavoro giornalistico, sviluppatosi in quasi sei anni ma concentrato, per assiduità e costanza, in tre anni e mezzo, purtroppo gli ultimi della sua giovane vita, con numerosi articoli e inchieste da leggere ancora oggi in ogni dettaglio. Nel libro non c’è solo tutto ciò, ma anche – anzi soprattutto – i fatti, tutti i fatti, nei quali sta il progetto del suo assassinio, voluto, deciso, preparato da ben altri che dallo psicopatico sbadato, all’improvviso uscito di sera, per mera dimenticanza con le pistole cariche in tasca e, alla fine, condannato ad appena 14 anni di reclusione.

L’autore ripercorre ogni filo della trama oscura e tragica sfociata nel bavaglio definitivo cucito con violenza sanguinaria sulla bocca e sulla penna di un grande giornalista, offrendoci un quadro di verità in cui stanno anche – ma bisogna saperli vedere – i tasselli finora ben occultati.

Salvatore Spampinato confessa di essersi dedicato solo di recente, dopo il rientro a Ragusa nel 2015, alla ricerca e alla verifica documentale della vicenda che sconvolse la sua vita e quella dell’intera famiglia. Nondimeno la completezza dello studio e l’organicità dell’analisi ci consegnano un punto di osservazione mai raggiunto prima, non solo a beneficio della conoscenza, condizione fondamentale per la coscienza civile e la memoria collettiva edificata sulla verità alle quali Giovanni ha diritto, ma anche degli accertamenti giudiziali finora falliti.

Provo a mettermi nel punto d’osservazione offerto dal libro e, da esso, a scrutare, nella complessità del quadro meticolosamente composto, l’orizzonte dei fatti finalmente sgombro da ombre, compromessi, sotterfugi, meschinità, peccati inconfessabili e reati mai confessati, scheletri nell’armadio degli uomini del sistema di potere del tempo, che prima non impediscono ed anzi favoriscono la morte fisica di Giovanni e poi lo ‘uccidono’ ancora, più volte, macchiandone l’immagine limpida di eroe civile, sottraendo alla giusta pena i suoi carnefici e omettendo ogni ricerca su movente, mandanti e co-esecutori.

E’ un fatto che l’unica ‘verità’ giudiziale finora raggiunta sia quella, e solo quella, esattamente preconfezionata dagli assassini e incredibilmente avallata da Corte d’Assise, Corte d’Assise d’Appello e Corte di Cassazione pur nell’evidenza documentale di dati di realtà in stridente contrasto, logico e fattuale, con le conclusioni processuali.

Lasciando a chi di dovere, sul campo che mezzo secolo dopo vorrei sperare finalmente libero e pienamente agibile, l’accertamento giudiziale cui attende l’iniziativa della Procura di Ragusa di ricerca di elementi utili alla riapertura delle indagini, mi soffermo sulla verità storica.

La via per la verità mezzo secolo dopo? E’ Giovanni Spampinato a indicarla con chiarezza e a dirci, ancora oggi, dove guardare….

Sì, è Giovanni stesso a dirci dove guardare. A dirci di non fermarci agli ultimi otto mesi della sua vita, quelli successivi all’omicidio di Angelo Tumino, ‘giallo’ irrisolto dopo oltre cinquant’anni e tuttora senza colpevoli e senza movente, avvenuto il 25 febbraio 1972 e al quale il giornalista ragusano – il più giovane allora nel territorio ibleo ma anche l’unico, a fronte della pilatesca diserzione etica e professionale di alcuni e dello squallore collusivo degli altri – dedica alcuni articoli, protesi a stimolare la ricerca della verità e a denunciare le anomalie e le omissioni investigative, nonché l’inconcludenza istruttoria resa inevitabile dalla cappa di piombo tenuta sugli uffici giudiziari di Ragusa, con tutto il peso oppressivo del suo doppio ruolo, dal presidente del Tribunale Saverio Campria, padre di Roberto indiziato di quel delitto, privo di alibi convincente e assiduo frequentatore della vittima forse fin nelle ore finali precedenti la sua uccisione: ma nessuno verifica sul serio.

E’ Giovanni stesso a dirci che se vogliamo sapere chi e perché, il 27 ottobre 1972, lo fa uccidere, dobbiamo andare indietro di un anno rispetto al delitto Tumino: ai suoi articoli pubblicati da marzo ’71 sul neofascismo, sull’eversione nera, su cospicui arsenali e strutture paramilitari segrete, sui traffici d’armi ma anche di sigarette e oggetti d’antiquariato serviti a finanziarli, sulle presenze inquietanti che egli sa cogliere in Sicilia, tra Ragusa, Siracusa e Catania, e collegare alla preparazione di attentati nel pieno di quella che il 7 dicembre 1970 Leslie Finer, da Londra, su The Observer, potendo disporre di documenti riservati sottratti dai Servizi segreti britannici all’ambasciatore greco a Roma, definisce, consegnando il termine alla storia, ‘strategia della tensione’.

Da giovanissimo corrispondente da Ragusa del quotidiano L’Ora, esperienza preceduta due anni prima da articoli sul mensile Dialogo sin dal ’67, Giovanni Spampinato, studente universitario, già nei primi mesi del ’69, ad appena 22 anni, si dimostra giornalista lucido, attento, impegnato, acuto ed esperto. Nei suoi reportages e nelle sue inchieste sono centrali, pur nell’attualità della cronaca, i temi della democrazia, della giustizia sociale, dei giovani e dello spirito di ribellismo del ’68 che in Sicilia è fioco, dei diritti umani, dello sfruttamento nel lavoro, degli scandali del potere, della corruzione della politica.  Leggere i suoi scritti – soprattutto su L’Ora, qualcuno anche su L’Unità e sul periodico locale L’opposizione di sinistra – per credere: siamo tra il ’69 e il ’72.

In Spagna è ancora saldo il regime di Franco; in Portogallo, anche dopo la morte di Salazar, resiste Estado Novo, dittatura prima militare e poi monopartitica di ispirazione fascista come quella spagnola; in Grecia, dal 1967 grazie ad un golpe il potere è in mano ai colonnelli i quali – con fascisti italiani attivi da Trento a Capo Passero, con terroristi neri e apparati di Roma a loro contigui – tramano per un colpo di Stato in Italia che possa sbarrare l’avanzata della sinistra e del Pci, dopo i fermenti sociali del ’68, alcune grandi riforme come lo Statuto dei lavoratori approvato il 20 maggio 1970 e la legge sul divorzio del primo dicembre successivo, dopo i governi Moro, Rumor e Colombo (quest’ultimo in carica fino al 18 febbraio ’72) modellati dal ’63 in poi sull’alleanza organica della Dc con il Psi di Nenni.

Si spiegano così la strage di Piazza Fontana, 17 morti e 88 feriti, nel centro di Milano il 12 dicembre 1969, le bombe all’Altare della Patria e diversi attentati a Roma e in altre città lo stesso giorno nello spazio di 53 minuti. Il 22 luglio 1970 nel clima infuocato dei moti di Reggio Calabria guidati dal Msi di Ciccio Franco c’è la strage di Gioia Tauro, con 6 morti e 66 feriti, provocata dal deragliamento del treno Siracusa-Torino che le successive inchieste giudiziarie attribuiscono ad un attentato eversivo di matrice fascista. E ancora, nel ’73 la strage della Questura di Milano, 4 morti e 52 feriti; l’anno dopo a San Benedetto Val di Sambro quella dell’Italicus, 12 morti e 48 feriti, e quella di piazza della Loggia a Brescia, 8 morti e 102 feriti; nel 1980 alla stazione di Bologna con 85 morti e 200 feriti.

Giovanni Spampinato comincia a scrivere di queste trame e lo fa partendo da ciò che vede a Ragusa e in Sicilia, con l’occhio di cronista attento e la coscienza autenticamente democratica di intellettuale di valore.

Significativa, il 10 marzo 1971 su L’Ora, l’inchiesta realizzata insieme a Liborio Termine, collaboratore delle pagine culturali e giovane docente ennese che l’autunno successivo comincia la carriera accademica all’Università di Torino, sul neofascismo dal titolo <<Msi mobilitazione armata, come si mobilitano le squadracce, riveliamo un documento riservato>>: il documento riservato ha la firma del vice segretario nazionale del Msi Tullio Abelli il quale invita i ‘camerati’ alla mobilitazione armata e chiede notizie sulle forze in campo disponibili, appena, presumibilmente molto presto, sarà necessario.

Quando Giovanni scrive, indicando con precisione gli scambi tra i fascisti siciliani e quelli greci al servizio del regime dei colonnelli con tanto di falsi gemellaggi culturali siculo-ellenici e traffici via mare tra Atene e Siracusa, non si sa ancora del fallito golpe Borghese di tre mesi prima, rivelato per la prima volta dal giornale Paese Sera una settimana dopo, il 17 marzo.

In quelle settimane e in quei mesi Spampinato continua a martellare su questo affaire scabroso e scottante che minaccia la democrazia, con vari articoli, inchieste e notizie che in Sicilia, fuori dalle testate su cui scrive Giovanni, e quindi sull’intera stampa dell’editoria ‘ortodossa’, nessun altro pubblica. Sbirciando tra i titoli troviamo <<Fascisti in Sicilia, untorelli o criminali? Nomi collegati ai colonnelli greci>>, <<Siamo fieri di essere fascisti>> (titolo che dà voce agli stessi artefici di queste trame), <<Contrabbando di sigarette, opere d’arte, armi, campi paramilitari camuffati da campeggi estivi, gruppi archeologici>>.

Sono i mesi che precedono le elezioni regionali in Sicilia del 13 giugno ’71 le quali segnano il punto più alto mai raggiunto dal Msi che supera il Pci e diventa il secondo partito, balzando dal 6,6 al 16,3%.

Un articolo di Giovanni Spampinato da memorizzare, tra i tanti che si susseguono, è quello pubblicato l’anno successivo, il 24 febbraio 1972, il giorno prima dell’assassinio di Angelo Tumino, esponente del Msi, trafficante di opere d’arte, in contatto con gruppi neofascisti e non estraneo alle loro azioni e all’intero sottobosco che le sostiene.

Il servizio ha per titolo <<Squadrismo in Sicilia, il partito della malavita>> e racconta l’allarmante escalation di violenze fasciste nell’area iblea e le scorribande delle ‘Sam’, squadre d’azione Mussolini.

Nel giorni seguenti, dopo avere trattato il delitto Tumino e avere focalizzato il ruolo di Roberto Campria, Giovanni Spampinato dal 6 al 9 marzo 72 posa ancora il suo sguardo sulle trame neofasciste, sugli strani movimenti a Ragusa, in quel periodo teatro d’azione dei maggiori esponenti dell’eversione nera come Stefano Delle Chiaie latitante dopo le bombe all’Altare della Patria, nonché suoi sodali di peso nelle organizzazioni paramilitari fasciste; scrive ancora dei tentativi di infiltrazione nei gruppi anarchici e di sinistra da parte di personaggi di quel mondo; documenta la presenza a Ragusa di esponenti di primo piano del terrorismo fascista propugnato da Ordine nuovo e Avanguardia nazionale nonché di ex affiliati alla Decima Mas del ‘principe nero’ Junio Valerio Borghese autore, nel ’70, del fallito golpe dell’Immacolata.

Giovanni scorge e sa decifrare con lucidità i segni della strategia della tensione, avverte la pressione su di sè e, inascoltato, lancia l’allarme

Giovanni Spampinato scruta, osserva, ricerca, indaga.

Scrive <<I fascisti dicono che a Ragusa accadrà qualcosa di grosso>> e avverte, chiara e forte, la pressione ostile su di sé di chi non gradisce che egli abbia smascherato questi movimenti che rivelano progetti eversivi e piani stragisti.

L’11 marzo 1972 fa sapere al fratello Alberto di essere “preoccupato”, di trovarsi dinanzi ad un “affare grosso”, rispetto al quale <<entrandoci dalla finestra sono andato a finire nella strage di Stato (Piazza Fontana, n.d.r.)>>; lo informa che <<i fascisti sono irritati>> verso di lui; che <<Cilia (dirigente Cisnal e Msi, deputato ibleo all’Ars dal 1967 al 1976, n.d.r.) minaccia querela>>; che tutto ciò, di cui avverte anche Angela Fais giornalista de L’Ora passata a Paese Sera con la quale è in contatto costante <<è rischioso, come camminare in un campo minato, però credo che ne valga la pena perché qualcosa sotto c’è e di non poco conto e allora tanto vale andare a fondo>>.

Giovanni scopre di essere seguito, pedinato, controllato e intercettato. Lo fa presente al fratello e, come visto, anche ad Angela Fais amica e collega in piena sintonia civile e professionale, attesa ad un tragico destino forse non senza connessioni con l’alert rosso lanciato da Giovanni: due mesi dopo sarà tra le 115 vittime della strage di Montagna Longa, il costone tra Cinisi e Carini sul quale si schianta il DC8 Alitalia proveniente da Roma carico di personalità di rilievo, la sera di venerdì 5 maggio, vigilia delle elezioni politiche e quindi di rientro elettorale, in quello che – maggiore disastro aereo italiano del tempo per numero di morti, superato tuttora solo da quello di Milano Linate nel 2001 – decine di indizi, omessi e ignorati nell’inchiesta giudiziaria, escludono sia stato un incidente. E che molto probabilmente è invece un’altra delle stragi recanti le impronte della ‘strategia della tensione’.

Tornando all’impegno giornalistico di Giovanni prima dello spartiacque del delitto-Tumino, egli, colpito da quanto apprende e da quanto scopre sulla ‘strage di Stato di piazza Fontana’, vi scorge, attraverso le notizie che quasi quotidianamente acquisisce proprio nella sua città e nel pezzo di Sicilia che abita e conosce, tutti i segni – minacciosi e inquietanti – di un possibile attentato politico che, specialmente dopo lo straordinario successo del Msi nelle regionali del ’71, abbia nel mirino le elezioni nazionali che il primo scioglimento anticipato nella storia del Parlamento repubblicano mette in calendario il 7 e 8 maggio 1972. Ed essendo il solo ad avere portato alla luce quei segni, egli è osservato a vista e tenuto d’occhio come possibile bersaglio.

Peraltro il 16 settembre ’70 è scomparso il giornalista de L’Ora Mauro De Mauro,  fascista della Decima Mas e amico di Borghese, ma da tempo valido cronista capace di scoop roboanti, come quello, poi riconosciuto da tutti come l’unica verità, che Enrico Mattei – perito nell’incidente del suo aereo privato il 27 ottobre 1962, stesso giorno e mese, dieci anni prima, dell’assassinio di Spampinato – in realtà è stato ucciso. De Mauro, venuto a Ragusa il giorno che precede il suo sequestro tombale, in quel tempo lavorava alla sceneggiatura de ‘Il caso Mattei’, il film di Francesco Rosi sulle vere cause della morte del presidente dell’Eni, uscito nel ’72 nel decennale di quell’attentato. De Mauro già tre mesi prima potrebbe avere saputo del golpe Borghese e – nonostante la vecchia e mai rinnegata militanza nazifascista – una volta divenuto giornalista di primo piano potrebbe essere stato ritenuto un rischio, anche semplicemente in termini di fuga di notizie, per quel progetto di colpo di Stato.

Ma se queste possono essere mere casualità sul filo di congetture, per quanto qui ci interessa non c’è alcun dubbio che Spampinato nel suo lavoro giornalistico riesca a vedere ben oltre le false verità di facciata e scorgere in tanti fatti di vita quotidiana quel fiume carsico in ebollizione che è la chiave della verità.

Stragi di Stato, eversione nera, i traffici iblei scoperti dal giornalista e quel filo che lega Giovanni Spampinato a Giuseppe Impastato

Giovanni Spampinato riesce a rilevare, tracciare e localizzare quel ‘fiume’ sul quale pochi anni dopo si imbatterà per un piccolo tratto e in un lembo quasi opposto di Sicilia, Giuseppe Impastato, il primo a capire che la strage di Alcamo Marina – dove la notte tra il 26 e 27 gennaio 1976 due carabinieri vengono assassinati dentro la caserma dove sono in turno di servizio – non è opera di quei giovani innocenti, di simpatie anarchiche, arrestati, torturati, costretti a confessare e condannati. Quell’eccidio, casualmente scoperto alle sette del mattino dalla scorta personale del capo del Msi Giorgio Almirante in quelle ore di passaggio nella piccola località trapanese, ha a che fare invece con le trame neofasciste del traffico d’armi che forse i due carabinieri hanno la sfortuna di notare, e con le collusioni tra mafia e pezzi del Sid (Servizio informazioni difesa, sigla dei Servizi segreti italiani d’allora) al soldo dei piani eversivi, come Gladio scoperta nel ’90 provvederà poi a documentare.

Del resto l’inchiesta del giudice Felice Casson sulla strage di Peteano, frazione di un piccolo comune del Goriziano dove il 31 maggio ’72 rimangono uccisi tre carabinieri e feriti altri due, svela che, se dopo quell’attentato molte ‘basi segrete’ di quel sottobosco eversivo, in realtà ben note e tollerate dalle forze di polizia, sono smantellate, le strutture importanti utili allo scopo soprattutto in Sicilia rimangono intatte fino al ’90 quando, caduto il muro di Berlino, l’Urss è prossima alla fine e, in Italia, Gladio viene finalmente svelata e nel contempo liquidata.

Anche quella strage compiuta ad Alcamo quattro anni dopo, con l’infamia criminale aggiuntiva dell’incriminazione e condanna di innocenti – marchio di fabbrica di servizi deviati e pezzi di Stato collusi con strategie destabilizzanti dell’ordine democratico – ci fa toccare con mano la cruda realtà di quel ’72 così lucidamente compreso da Giovanni Spampinato.

Nonostante da marzo alla guida del Pci vi sia Enrico Berlinguer il quale da anni predica l’eurocomunismo e rivendica piena autonomia dall’Urss che condanna duramente dopo i carri armati a Praga, arrivando a sfidare il Comitato centrale del Pcus a Mosca nel ’69 (cosa che a ottobre ’73 gli costa in Bulgaria un attentato al quale scampa per miracolo) nel ’72 in Europa Yalta è ancora viva e la cortina di ferro sempre spessa, sicché l’anomalia italiana – di un Pci, il più grande partito europeo ‘comunista’ di nome, ma socialdemocratico di fatto – ancora per tutti gli anni ’70 non allenta le pregiudiziali nei suoi confronti: parallelamente, i piani eversivi di matrice fascista, sostenuti da pezzi di Stato, vivono una stagione di grande fulgore e resistono fino ai primi anni ’90, se è vero che, come segnalato per tempo e poi rivelato con nomi e dettagli da Alberto Lo Cicero, confidente dei carabinieri e successivamente collaboratore di giustizia, Stefano Delle Chiaie un mese prima della strage di Capaci è sul posto con boss mafiosi ad organizzare probabilmente l’attentatuni.

Giovanni Spampinato non solo, pur dall’estrema periferia del Paese nella quale si trova, negli anni ’71 e ’72 ha ben presente e legge lucidamente questa fase storica ma, con le sue ricerche e i suoi reportage, ne dà diretta e viva testimonianza in un’area, geograficamente marginale, nella quale altrimenti quelle dinamiche e quelle trame si svilupperebbero indisturbate in totale silenzio.

Per completare il parallelo con Peppino Impastato, va riconosciuto che a Spampinato viene ancora oggi negato il diritto alla verità che, sia pure con anni di ritardo, invece ottiene pienamente l’eroe di Cinisi il quale gli somiglia molto e di cui Giovanni a mio avviso è l’icona-gemella che in vita lo precede di alcuni anni, mentre in morte, e quindi nella memoria civile condivisa, è ancora costretta a inseguirne le orme in una ricerca di verità e giustizia incredibilmente più difficile. Il fondatore di Radio Aut è ucciso nel ’78 e subito criminalizzato, da pezzi di Stato deviati e collusi, come terrorista: ma già sei anni dopo, nell’84, la sentenza-Caponnetto attesta la matrice mafiosa del delitto sia pure ad opera di ignoti, mentre nel ’97 arriva l’incriminazione di Gaetano Badalamenti e nel 2002 la sua condanna all’ergastolo. Tutto ciò grazie ai collaboratori di giustizia, esistenti e risolutivi perfino nelle più feroci cosche mafiose, mentre a Ragusa, rispetto al delitto Tumino e alle connessioni scoperte da Giovanni, sono tutt’oggi una specie sconosciuta.

La Ragusa di fine anni ’60 e inizio ’70 nella quale si muove il giornalista Spampinato è anche quella che nel carcere di contrada Pendente vede detenuti boss mafiosi del calibro di Vincenzo Rimi e del figlio Filippo, all’ergastolo per duplice omicidio: il primo, capo carismatico di Cosa Nostra già negli anni ’50 e ’60 quando a Castellammare del Golfo è in rapporti con la Dc di Bernardo Mattarella, è tra i presenti alla riunione di Milano con Badalamenti all’epoca confinato a Macherio e con altri boss mafiosi come Luciano Liggio e Tommaso Buscetta, per decidere se rispondere all’invito di Borghese di dare sostegno militare al golpe, in cambio, una volta preso il potere, di un trattamento benevolo per i reclusi di lungo corso. Badalamenti, di cui Filippo Rimi è cognato, dice no, ma l’altro figlio del boss, Natale Rimi, secondo Buscetta e Antonino Calderone è ampiamente coinvolto nel golpe progettato e successivamente abbandonato. E Badalamenti si adopera poi per la libertà del congiunto acquisito, marito della sorella della moglie: dopo un incontro con Giulio Andreotti, confermato da riscontri processuali, la Cassazione annulla l’ergastolo e rinvia a nuovo processo che si conclude con l’assoluzione per insufficienza di prove: è il metodo-Carnevale (Corrado, presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione dal 1985 al 1993, noto come l’ammazza-sentenze, meglio sarebbe dire l’ammazza-condanne contro i boss mafiosi), non uno scherzo, ma drammatica realtà per un decennio!

Sarà proprio nel carcere di Ragusa abitato da boss di questo calibro, a presentarsi, alle 23 del 27 ottobre ’72, Roberto Campria con in mano una delle due pistole fumanti con la quale neanche un minuto prima ha sparato quattro colpi a Spampinato, e in bocca la sua falsa verità. L’altra pistola, senza impronte, che ha esploso due proiettili sul corpo del giornalista, rimane in auto.

Il ‘Memoriale Spampinato’ in un cassetto, il Premio giornalistico in sua memoria deliberato dalla Provincia già nel ’72, finanziato e bloccato: da chi e perchè?

Alzato lo sguardo fin verso i confini del campo delineato da Salvatore Spampinato con la sua rigorosa ricostruzione documentale, ecco di nuovo a Ragusa sulle tracce del prezioso lavoro giornalistico di Giovanni.

Egli, cattolico di sinistra, si candida, non eletto, alle elezioni provinciali del 7 e 8 giugno 1970 – le prime in Sicilia dopo decenni di commissariamento dell’ente intermedio – come indipendente nelle liste del Pci al quale si iscrive nella primavera dell’anno dopo: per un destino beffardo e crudele quel Consiglio provinciale del quale Giovanni Spampinato avrebbe voluto far parte, la vigilia di Natale del ’72, due mesi dopo la sua uccisione, delibera all’unanimità l’istituzione di un premio giornalistico nazionale a lui intitolato, con tanto di stanziamento finanziario. Nonostante la delibera pomposamente e formalmente approvata, la solenne volontà in essa contenuta ancora oggi risulta una menzogna e un impegno tradito: un accanimento cinico e cialtrone contro la memoria di un figlio illustre di Ragusa e del territorio ibleo.

il 5 aprile ’72 Giovanni Spampinato consegna ai dirigenti del suo partito un documento di importanza fondamentale. A lui stanno a cuore la democrazia, la pace, la libertà, la giustizia sociale, il benessere delle fasce deboli. Sente il bisogno perciò di segnalare i pericoli che, nell’imminenza delle elezioni politiche del 7 e 8 maggio, vengono dagli apparati fascisti i quali, galvanizzati dai recenti successi elettorali del Msi e grazie all’alleanza strategica e operativa con cellule di dittature militari straniere e pezzi deviati dello Stato nel silenzio acquiescente di settori delle forze di polizia, stanno preparando “qualcosa di grosso” ed egli da tempo ne ha diretta percezione proprio a Ragusa. Perciò ad un mese da importantissime elezioni politiche – come abbiamo visto le prime anticipate, nella storia della Repubblica – scrive e consegna ai vertici del Pci ibleo quello che, dopo la sua morte, prenderà il nome di ‘Memoriale Spampinato’.  Un documento esplosivo, da ‘allarme rosso’ contro il pericolo nero e però riposto e dimenticato in un cassetto, a lungo occultato anche dopo il suo assassinio.

Se chi di dovere lo avesse letto sul serio o, se dopo averlo letto, non ne avesse ignorato l’appello accorato e l’allarme lucido, forse la storia sarebbe stata del tutto diversa.

Salvatore Spampinato giustamente nel suo libro focalizza la centralità di questo passaggio nella successione degli eventi, e, pur nel comprensibile coinvolgimento personale ed emotivo, lo fa con il freddo rigore della verità storica.

Il 10 aprile 1972 Giovanni Spampinato firma l’ultimo reportage sulle trame neofasciste. E non perché dopo abbandoni il tema, ma solo perché da oltre un mese è costretto ad affrontarlo su un altro piano, in cui ad occupare la scena è il delitto-Tumino che attraversa o lambisce il mondo degli stessi traffici, interessi e consorterie politico-eversive e nel quale però la verità diventa impossibile alla luce di quella impressionante sequenza di errori, infortuni, negligenze, omissioni, incertezze, travisamenti, debolezze, condizionamenti che bloccano, deviano, fanno girare a vuoto la macchina della giustizia.

E perciò Spampinato, rivelandosi giornalista detective di talento che batte le piste giuste e cerca dove bisogna cercare, si concentra su questo ‘giallo’, informa correttamente i lettori, accende luci, offre spunti e contributi preziosi ma alla fine, dinanzi alla realtà di un tribunale sequestrato nelle sue funzioni, può solo denunciare l’assurda situazione di un apparato inquirente disastroso nei primi atti, poi incerto, smarrito, disorientato, totalmente incapace di cercare la verità sotto il peso di un ufficio istruzione che risponde al padre del maggiore indiziato del delitto il quale se anche, nella migliore delle ipotesi, non vi abbia avuto alcun ruolo attivo, certamente nasconde e falsifica elementi di sua conoscenza decisivi per le indagini. Questa falsificazione non è la verità giudiziale (lo è stata – con la condanna, ad opera dei giudici di merito, di Roberto Campria per falsa testimonianza – fino alla soglia della Cassazione) ma è, comunque, l’inoppugnabile verità storica e contempla peraltro solo l’ipotesi meno grave tra tutte quelle compatibili con i fatti: se anche non uccide Tumino, cosa di cui mai è raggiunta certezza, Roberto Campria non dice, anche mentendo, ciò che sa e seppellisce ogni segreto con sé nella tomba.

La chiave della morte di Spampinato non è (solo) nel delitto Tumino, ma soprattutto nell’attività del giornalista ben prima del 25 febbraio ’72

Non v’è alcun dubbio che anche il periodo intercorrente tra il delitto Tumino e l’assassinio di Spampinato vada considerato con attenzione per squarciare le tante ombre addensate sulla verità. Ma ancora più importante è ciò che Giovanni comincia a fare un anno prima e poi continua a portare avanti anche dopo il 26 febbraio ’72, data della scoperta di quel cadavere così ingombrante, e non solo per la stazza fisica di un omone di un metro e novanta per oltre cento chili!

Il corrispondente de L’Ora, costretto però da questo momento a restringere il campo d’indagine con le lenti necessarie – nella scandalosa cecità del potere giudiziario che fugge dai propri doveri di giustizia e nella totale subalternità della ‘stampa mainstream’ – è tenace e determinato nella sua opera incessante volta a scorgere ogni dettaglio di quel delitto che di fatto gli impedisce di osservare l’intero orizzonte così abilmente scrutato prima.

Senza quel naufragio giudiziario la storia molto probabilmente sarebbe stata un’altra, perché la verità tempestiva sul caso-Tumino ci avrebbe consegnato i responsabili e chiarito anche il movente. Come peraltro perfettamente coglie uno dei pochissimi magistrati ad uscire a testa alta, per l’ufficio esercitato e per gli atti compiuti, dal ciclone giudiziario scatenato dal fallimento delle indagini sull’omicidio del 25 febbraio e da quelle sull’assassinio, il 27 ottobre successivo, di Giovanni Spampinato: Tommaso Auletta – titolare, come sostituto procuratore generale, dell’inchiesta sommaria sul secondo dei due dossier e poi, divenuto procuratore generale, pubblico ministero nel processo d’appello – il quale chiede la cancellazione dell’attenuante della provocazione in favore dell’omicida Roberto Campria e quindi il conseguente aumento della pena, anche se, beffardamente, ottiene la prima ma non il secondo, bensì il suo contrario: incredibilmente la Corte d’Assise d’Appello – pur facendo cadere giustamente l’attenuante – taglia un terzo della già mite pena comminata in primo grado dalla Corte d’Assise.

Appena Auletta, la notte del 27 ottobre ’72, prende in mano l’inchiesta sull’uccisione di Spampinato, comprende subito tutto quanto successo. E infatti alla stampa dichiara: <<il movente del delitto Spampinato ci darà la soluzione del caso Tumino>>. Qualche giorno dopo a L’Ora conferma: <<si può arrivare facilmente alla soluzione del caso Tumino>> ma egli non può occuparsene perché da mesi l’inchiesta è formalizzata, quindi compete al giudice istruttore del Tribunale di Ragusa (presieduto da Saverio Campria) che ben presto, decorsi quaranta giorni, prenderà in mano anche il fascicolo sul delitto Spampinato (sic!).

In quella breve finestra d’indagine Auletta dimostra di avere le idee chiare (a L’Ora dice anche: <<sul delitto Tumino non credo si sia fatto molto>>) ma non è bene assistito come dimostra il fatto che egli, quando interroga Roberto Campria nel carcere di Modica l’1 novembre, ignori che una delle due pistole da cui sono partiti i colpi è senza impronte. In ogni caso Auletta è costretto ben presto ad uscire di scena appena decorsi i quaranta giorni dell’inchiesta sommaria che gli è affidata, sicchè sul movente del delitto-Spampinato può solo avviare il lavoro, poi compromesso e rinnegato dalla successiva istruttoria formale del Tribunale di Ragusa, fino al 5 dicembre ‘72  presieduto ancora dal padre dell’assassino il quale visibilmente mente sia sul movente che sulle complicità. E Saverio Campria, dopo varie resistenze perfino dopo il 27 ottobre, lascia l’incarico solo quaranta giorni dopo perché ‘promosso’ su sua richiesta a consigliere della Corte d’Appello di Roma.

Auletta, rientrato tre anni dopo nella partita processuale come pubblico ministero nel giudizio d’appello, demolisce alcune falsità della prima sentenza come l’attenuante della provocazione e, soprattutto, ribalta l’infame ricostruzione dell’accusa che dinanzi alla Corte d’Assise di Siracusa, sostanzialmente invece dell’assassino mette alla sbarra e processa Spampinato, ‘colpevole’ di … giornalismo: sano, corretto, autentico giornalismo dice l’evidenza dei fatti.

In secondo grado Auletta riesce ad affermarsi pienamente su questo punto, ma sul movente, in assenza di serie indagini nell’istruttoria, può solo esporre le proprie conclusioni che la Corte d’Assise d’Appello di Catania ignora e lascia cadere fermandosi alla tesi di chi ha voluto, pianificato e fatto eseguire l’omicidio di Giovanni Spampinato.

Tornando al filo che unisce i due delitti, una verità piena e tempestiva sul caso Tumino – facilissima da raggiungere nelle condizioni date, anche senza particolare talento investigativo, se solo chi poteva e doveva lo avesse voluto – con ogni probabilità avrebbe contenuto anche molte risposte alle domande di Giovanni, alle notizie da lui scoperte e pubblicate, a quell’allarme fatto risuonare, sempre con la verità in punta di penna, per la democrazia, la pace sociale, la sicurezza della Repubblica contro ogni rigurgito fascista.

La ricostruzione meticolosa di Salvatore Spampinato va letta senza tralasciare nulla. E gli articoli di Giovanni, in essa puntualmente documentati, vanno considerati un unicum temporale, dal primo, il 10 marzo ’71, all’ultimo prima della sua uccisione. E’ in questa logica sequenza e nelle tante connessioni che ne derivano che si può provare a scrostare il quadro ormai ben delineato, contenente certamente la verità, degli elementi che ne hanno falsato e oscurato la scena, inserendovi quelli scartati volutamente o ignorati e sviluppandone il filo interrotto della ricerca.

Delle Chiaie a Ragusa, l’ombra delle stragi, il delitto Tumino sul quale la giustizia naufraga:  Spampinato un faro di luce ‘pericoloso’, da spegnere con la morte fisica

Il delitto-Tumino avviene, a Ragusa, quando – a Ragusa – è in pieno fermento, forse prossima ad una svolta eclatante, quella terrificante epifania che da tempo Giovanni denuncia segnalando l’area iblea come il teatro d’azione non solo di fascisti locali di stanza ordinaria, ma di altri di peso venuti appositamente da fuori, esponenti di primo piano dell’attivismo eversivo e stragista delle organizzazioni impegnate nel tenere alta la ‘strategia della tensione’ come Ordine nuovo e Avanguardia nazionale.

E’ certamente dal 10-15 gennaio ’72 che a Ragusa si aggirano Stefano Delle Chiaie che di Avanguardia nazionale è stato fondatore, Stefano Galatà figura di spicco, da più tempo forse Vittorio Quintavalle ed altri. E’ nello stesso periodo che Tumino, insieme all’immancabile Campria, frequenta quest’ultimo insieme a quell’altro ex componente della Decima Mas che risponde al nome di Giovanni Cutrone, il quale, come Campria, avrebbe potuto dire molto, o forse tutto, sul delitto del 25 febbraio. Non è un caso che i preparativi di ciò che Spampinato scopre e segnala (“qualcosa di grosso accadrà a Ragusa”) si arrestano all’improvviso con il delitto Tumino, tanto che subito dopo i funerali del trafficante d’antiquariato, i due fedelissimi del ‘principe nero’ golpista, Quintavalle e Cutrone, spariscono. Il primo si dilegua dopo essere stato interrogato e avere fornito un falso alibi nelle ore della morte di Tumino, il secondo non si presenta alla convocazione per il confronto all’americana e il riconoscimento ad opera del teste Elisa Ilea: confronto al quale incredibilmente gli inquirenti, o gli investigatori delegati, ‘dimenticano’ di chiamare Roberto Campria.

Come se il delitto Tumino, quasi un incidente di percorso nelle dinamiche di quelle trame e di quei piani eversivi e probabilmente stragisti, abbia bloccato il progetto captato da Giovanni la cui ottica d’osservazione di cronista-detective e giornalista d’inchiesta viene a sua volta attratta e catturata dalle indagini su quel delitto, quel singolo delitto che probabilmente è solo una variante secondaria, forse fortuita, rispetto a quei traffici e a quei progetti che sono la scena centrale e dominante nel quadro d’insieme e, con ogni probabilità, la chiave di volta per la verità su entrambi i delitti. E che pure il secondo, quello di Spampinato, rimandi anche, e forse soprattutto, a fatti antecedenti al primo lo suggeriscono dati presenti in una serie di fatti.

Il primo: dopo l’uccisione di Tumino, Roberto Campria teme di fare la stessa fine, si agita, si arma, annuncia verità-postume da affidare ad un notaio. E più Spampinato, che ben prima del delitto Tumino ha scoperto e denunciato le trame neofasciste, è presente sulla scena sapendone vedere il contesto di fondo ed essendo capace di focalizzare in ogni momento ciascun tassello del puzzle, più egli è preoccupato e cerca protezioni.

Il secondo: il figlio del presidente del tribunale, dopo il delitto Tumino del quale è indiziato e sul quale sa molto più di ciò che dice e che prima o poi potrebbe dire, viene avvicinato da personaggi misteriosi i quali, a suo dire, gli propongono un patto criminale e un compenso corruttivo. Se ciò è vero, chi sono i suoi aspiranti complici e perché agli inquirenti di Ragusa non sembra interessare troppo scoprirlo? Come definire se non totale ‘bancarotta della giustizia’ di quel tribunale il disinteresse o la scarsa attenzione per una notizia sconvolgente? Perché pericolosi delinquenti scelgono il figlio, secondo la denuncia di questi, del suo presidente per stringere con lui liberamente un patto utile a portare avanti i loro affari criminali?

Se la denuncia di Campria è vera, tali malavitosi con ogni probabilità si muovono sulla stessa scena, unica, delle trame eversive scoperte da Spampinato e dei traffici illeciti necessari a sostenerle nei quali, forse fortuitamente ma forse no, cade Tumino. E’ più probabile che Campria almeno in parte inventi, o stravolga per le sue esigenze, quel fatto misterioso al fine di contrastare le minacce e neutralizzare i pericoli per sé che vede in qualcosa in cui è immerso e da cui a modo suo cerca di difendersi o di uscire indenne. La totale inazione degli inquirenti lascia ogni cosa nel buio.

Il terzo: la strana morte di Salvatore Guarino, restauratore di oggetti d’antiquariato in affari con Tumino, convocato per il confronto all’americana successivo alle dichiarazioni della teste Ilea, interrogato sul delitto e destinatario in precedenza di provvedimenti di sequestro di reperti trafficati con l’ingegnere amico. Egli muore il 6 gennaio ’73 vittima apparente di un incidente di lavoro mentre ripara un guasto elettrico nel campanile del duomo di San Giorgio di Ibla. Da mesi teme di fare la stessa fine di Tumino ed è terrorizzato al punto che anch’egli annuncia una lettera da affidare ad un notaio per indicare a futura memoria, perché evidentemente ne conosce i nomi, chi ne voglia la morte.

Il quarto. Quintavalle e Cutrone spariscono all’improvviso da Ragusa subito dopo il funerale di Tumino, quanto meno per nascondere ciò che sanno e, forse, anche per coprire proprie dirette responsabilità: diversamente, perché, non hanno alibi credibili il pomeriggio e la sera del 25 febbraio ‘72? Cutrone inoltre torna a Ragusa, restandovi per mesi di nascosto da fine marzo a fine agosto e poi ancora l’intero mese di ottobre, raccomandando a chi lo ospita di non dire a nessuno della sua presenza in città nei giorni dell’omicidio-Spampinato.

I quattro elementi dimostrano quanto sia forte e chiaro il nesso tra i progetti eversivi ruotanti intorno ad attivisti del Msi e ad artefici di primo piano della ‘strategia della tensione’ venuti appositamente a Ragusa, i traffici illeciti necessari per finanziarli, l’uccisione di Tumino, il ruolo di Roberto Campria nel teatro complessivo di quei movimenti, e l’assassinio – ben pianificato – di Spampinato.

Spampinato, ‘ucciso’ più volte anche da morto, la verità sfregiata da giudici e giornali inclini e asserviti alla narrazione dei carnefici

Ripercorrendo i fatti e i documenti così ben scandagliati in sequenza da Salvatore Spampinato nel suo libro risulta ben delineata la via obbligata per la verità.

Nel contempo, e speriamo una volta per tutte, la ricostruzione fa piena chiarezza e rimuove le falsità sulle quali finora in tanti – smemorati, pasticcioni o coscienti propalatori di menzogne – hanno provato a sfregiare la figura e l’opera di Giovanni.

Il giornalista non fu sprovveduto, né negligente o inesperto, e men che meno persecutore o provocatore di Campria.

Giovanni Spampinato è stato un giornalista serio, capace, libero, coraggioso. Che scrisse sempre la verità e provò in tutti i modi, con le notizie da lui scoperte e le sollecitazioni rivolte, a liberare l’apparato giudiziario ibleo dalla zavorra che lo schiacciava sulle proprie devianze e omissioni, a scuotere la pubblica opinione e la società civile, a scrollare l’informazione ‘ortodossa’ dal suo torpore collusivo e dal pactum sceleris del silenzio utile a quel sequestro di giustizia.

La stampa locale più diffusa, quella di sistema, tradì la sua funzione, totalmente adagiata su questa deriva complice, per debolezza o per esercizio militante degli interessi ostili alla verità e alla giustizia: interessi ben presidiati nei palazzi del potere a cui quella stampa era asservita, nei quali i neofascisti erano di casa, ed anche quelli che attentavano con le bombe alla Repubblica potevano muoversi indisturbati; interessi quindi nemici della limpida attività – l’unica veramente giornalistica, a fronte di quella finta, perché prostituita, degli altri – di Giovanni: perciò lasciato solo, colpito e fatto colpire, fino alla morte fisica, e anche oltre per decenni, perfino in tempi recenti.

E’ ignominioso che di Giovanni Spampinato, il 27 ottobre 1973, nell’anniversario della morte, sia scritto: <<… giovane cronista … un tantino sprovveduto … ebbe a raccogliere tali dicerie (sul delitto Tumino n.d.r.) condendole con qualcosa di suo….>> (Da La Sicilia, a firma di Giovanni Pluchino il quale, pure, Spampinato avrebbe dovuto conoscerlo bene).

Del resto lo stesso quotidiano, l’8 novembre dell’anno prima, dodici giorni dopo l’assassinio, scrive che Roberto Campria <<ha ucciso per reazione … ad una condotta velatamente ma persistentemente provocatoria>>. Questa falsità è solo la tesi degli assassini di Spampinato cucita addosso con cura a Campria killer di comodo e smentita da mille evidenze tra le quali, per esempio, le parole scritte ad agosto ’72 dallo stesso Campria nell’esposto alla procura generale di Catania e al giudice istruttore di Ragusa quando si scopre indiziato di reato per il delitto Tumino: <<… i sospetti non erano frutto della fantasia di un giornalista …>>.

Ancora il quotidiano catanese il 16 ottobre 1976, ricordando, oltre quattro anni dopo, gli articoli di Spampinato sul delitto Tumino, osserva: <<…suscitando le più naturali e legittime reazioni del sospettato>>. Insomma per La Sicilia uccidere è “naturale e legittimo” e lo è, specificamente, nel caso di Roberto Campria nei riguardi del giornalista.

Eppure Giovanni Spampinato pubblica il 3 agosto ‘72, tre mesi prima di essere ucciso, l’ultimo articolo sul caso-Tumino, e lo fa unicamente per dare voce a Roberto Campria (titolo “Il figlio del magistrato: non sono io l’assassino”) il quale peraltro nell’occasione, la conferenza stampa del giorno prima, lo rassicura di non provare alcun risentimento e aggiunge perfino di considerarlo un vero amico. Parole ribadite, quattro giorni dopo l’uccisione di Spampinato, il primo novembre, al pubblico ministero Tommaso Auletta, magistrato senza macchia e di tutt’altra pasta rispetto ad altri, il quale, come abbiamo visto, lo interroga ignorando (chi gli ha nascosto il rapporto della Scientifica?) che una delle due pistole, quella trovata in macchina e che ha sparato due dei sei colpi mortali, è senza impronte.

La lettera aperta degli intellettuali cattolici dopo la morte di Spampinato inchioda i maggiorenti della stampa locale e ne smaschera le miserie morali e professionali

Il quotidiano etneo a quel tempo è il solo strumento locale d’informazione in quanto, purtroppo, l’unico ampiamente diffuso a Ragusa: e ancora non ci sono le emittenti radio-tv, sì che in assoluto l’unico mezzo di comunicazione in provincia è la stampa cartacea. Questo monopolista locale dell’editoria in quegli anni – nella città iblea anche ben oltre le indicazioni centrali e gli interessi della proprietà e della direzione – è asservito a quel sistema di potere marcio e faziosamente schierato, anche in dispregio della più evidente verità dei fatti, per la discriminazione pregiudiziale contro il pensiero e la cultura di sinistra che Giovanni, anche con il suo giornalismo libero al servizio della collettività, impersona.

Chi avesse dubbi rilegga le parole, arroganti, contorte e intrise di tutta la violenza del potere più bieco, scritte dai giornalisti ragusani de La Sicilia in risposta alla ‘lettera aperta alla società e alla stampa ragusana’, autocritica prima che critica (il punto di analisi è: città omertosa, giustizia lenta, stampa silente) di trentasette intellettuali di cultura cattolica tra cui sacerdoti, studenti universitari, docenti, professionisti, consiglieri comunali Dc.

Salvatore Spampinato nel suo libro pone giustamente in grande considerazione quelle parole di insostenibile autodifesa d’ufficio dopo la lettera aperta, perché esse chiariscono ogni cosa e aiutano a capire, per risposta indignata e tranciante, quali siano i compiti del vero giornalismo, quello di Giovanni, e quali quelli di un finto giornalismo falso e corrotto, ad opera di ‘quinte colonne’ di un sistema nel quale il presidente del tribunale può ottenere, dal ceto politico che governa e negli enti presidiati da quelle stesse colonne, concorsi pubblici ad hoc per sistemare, anche ottenendo con sottili pressioni il ritiro dei concorrenti, quel figlio il quale, tempo dopo, da sette mesi indiziato di omicidio negli uffici giudiziari da lui dipendenti, può acquistare illegalmente due pistole, portarle con sé, ostentarle con il colpo in canna, senza che la polizia – pur informata di questo porto abusivo e quindi tenuta a sequestrargliele – faccia nulla, sì che quel ‘potente figlio di’, venti giorni dopo avere acquistato le due pistole, possa usarle per ammazzare Spampinato. E, a questo proposito, giustamente viene messo in rilievo che Roberto Campria custodiva tante altre armi e munizioni, scoperte in una perquisizione tardiva, diversi giorni dopo l’uccisione del giornalista: con la necessaria tempestività forse sarebbero stati trovati anche elementi utili, soprattutto appunti e documenti, a confutare la falsa verità sul movente confezionata dagli assassini.

Prima di questo epilogo tragico ed evitabile, quando la città incredula non tace dinanzi alla giustizia immobile sul delitto-Tumino, ecco il capolavoro delle ‘quinte colonne’ che riescono ad espletare in sequenza queste operazioni: regalano paginate con patente di toccante umanità a quel presidente di tribunale dipinto padre esemplare perché si preoccupa della ‘sistemazione’ dei figli; oscurano totalmente il nome di Roberto Campria in relazione al caso Tumino e riescono a scriverlo solo dopo che egli si dichiara reo confesso dell’assassinio di Giovanni Spampinato; eppure ammettono, successivamente e forse involontariamente, di essere sempre state a conoscenza delle notizie sul delitto Tumino mai pubblicate e di quel macigno dinanzi al quale chiudono gli occhi: il figlio del presidente del tribunale indiziato dell’omicidio la cui istruttoria compete allo stesso tribunale presieduto dal padre che, tranquillamente, se ne occupa, con i ben noti effetti disastrosi e perversi. E se ciò non bastasse, la risposta alla lettera aperta alla società e alla stampa ragusana in ogni caso spazza via ogni dubbio interpretativo.

Tutto ciò è perfettamente documentato nel libro di Salvatore Spampinato che opportunamente sottolinea anche quell’altra autodifesa, falsa arrogante e sfrontata, alla quale in un certo momento, il 25 luglio ’72, ricorrono le ‘colonne’ (<<non siamo cultori di scandali o di notizie avventate … noi … senza false e dannose speculazioni…>>), sotto la pressione di un’opinione pubblica che capisce e non accetta il gigantesco furto di verità compiuto sotto il suo naso. Ad onor di cronaca La Sicilia in precedenza scrive il nome di Roberto Campria una volta, venerdì 3 marzo ’72, ma solo per pubblicare integralmente e senza commento un suo scritto nel quale il figlio del presidente del tribunale insulta e calunnia Giovanni Spampinato, ‘colpevole’ di avere scritto la verità – che La Sicilia nasconde – sulle prime indagini dopo il delitto Tumino. Quell’autodifesa va riletta alla luce di quanto rivelato dallo stesso quotidiano dopo l’uccisione di Spampinato in un articolo in cui riferisce che il procuratore Francesco Puglisi in un colloquio a fine luglio ammette i sospetti su Campria. Eppure su quel colloquio La Sicilia pubblica nell’immediato un’ampia intervista nella quale di quell’ammissione non v’è traccia.

Quando Spampinato, sommessamente e amaramenete, in privato scriveva: “Qui la stampa è un’associazione ad omertà controllata”

Giovanni Spampinato, pur molto giovane, capisce ben presto cos’è nella sua città la stampa che conta, monopolizzata da rozzi maneggioni per i quali il giornale più diffuso è un arnese di potere asservito ai propri interessi, nonché alle reticenze ed alle menzogne necessarie ad appagarli. Già ad aprile ’69 su Dialogo scrive un articolo dal titolo <<Ragusa, la stampa e i suoi padroni>> e su questo tema che, anche prima di toccarlo direttamente, lo turba e l’inquieta, torna più volte. Quando poi deve misurarsi con quel sistema di sequestro della verità e della giustizia, dopo avere subìto sulla propria pelle i colpi violenti del potere come la querela di Campria le cui calunnie e veleni il giornale dominante gli scaglia addosso, scrive al fratello Alberto, con amarezza ma anche con lucida diagnosi: <<qui la stampa è un’associazione ad omertà controllata>>.

Vittima, bersaglio, avversario, intralcio e imbarazzo di tale ‘associazione’, Giovanni, nonostante la giovane età, è un intellettuale strutturato e di solide letture, con Gramsci, Marx, Sartre, Marcuse in prima fila nel suo ‘Pantheon’ ideale e immaginario; amante di musica classica, vocato all’impegno sociale attivo, perciò volontario nei soccorsi ai terremotati nel Belice; lucidamente antifascista, sensibile alla dottrina sociale della Chiesa e alle sue pratiche non rituali ma concretamente coerenti, quindi impegnato nella Fuci, nelle Acli, nell’Arci e tra i fondatori di Dialogo, mensile che dopo la sua morte sopravviverà grazie a Piero Vernuccio trovando a Modica l’habitat naturale.

Tutto ciò precede l’intensificarsi del suo impegno giornalistico in prima linea dal ‘69, poi sempre più intenso e drammatico nel ’71 e nel tragico ’72. In questo periodo, grazie anche all’impegno pressoché quotidiano per L’Ora, cominciato nel ’69 per volere dello storico direttore Vittorio Nisticò, Giovanni scopre nel giornalismo la sua compiuta dimensione professionale e di vita, costretto però a misurarsi, a Ragusa, con le miserie di quei maneggioni e a doverne subire colpi bassi e angherie. Perciò non gli viene difficile, come abbiamo visto, trovare le parole più appropriate (<<qui la stampa è un’associazione a omertà controllata>>) per descrivere la realtà.

Sono certo che ben presto Giovanni avrebbe potuto lasciare quel grigio contesto di periferia così inadeguato alla sua cifra morale e alla statura culturale e professionale per il salto di qualità che già ben prima avrebbe meritato. E purtroppo possiamo solo immaginare quale grande giornalista, scrittore, intellettuale e magari altro ancora Giovanni sarebbe stato, nei cinquant’anni che non ha vissuto, vittima di quello che un grande cronista come Mario Genco, già su L’Ora del 28 ottobre ‘72, definì immediatamente <<un omicidio annunciato, compiuto in nome collettivo>> perché non v’è dubbio che le pistole impugnate dagli esecutori e armate dai mandanti, poterono sparare grazie al fatto che un intero sistema, quello contro cui Giovanni – da solo e a mani nude – dovette combattere, lo consentì e lo favorì.

In definitiva, tornando su un altro piano dell’intero campo degli eventi in successione, La Sicilia – dominus pressochè assoluto dell’informazione del tempo – falsifica ripetutamente la realtà, dopo l’uccisione di Spampinato fa proprie le argomentazioni della difesa di Campria padre e figlio, nelle chiavi di lettura sociale e politica dei fatti assume la stessa posizione del Msi che certo non avversa ed anzi sostiene i disegni neofascisti: il tutto anche dopo il 27 ottobre ’72, arrivando perfino a manipolare e piegare alle proprie menzogne le sentenze sull’omicidio di Spampinato.

La prima, della Corte d’Assise, il 7 luglio 1975, riconosce all’assassino l’attenuante della provocazione. Esclusa invece dalla Corte d’Assise d’Appello il 4 maggio 1977 e, definitivamente, dalla Cassazione il 3 ottobre 1978 nelle cui sentenze è attestato che Spampinato esercitò correttamente il diritto di cronaca scrivendo la verità. Eppure, proprio riferendo del pronunciamento della suprema corte, il quotidiano catanese annota: <<Spampinato fu ironico e Campria gli sparò>>.

Questa versione è totalmente difforme dalla realtà e corrisponde unicamente alla tesi degli assassini di Giovanni, opportunamente confezionata da loro ed in contrasto perfino con alcune dichiarazioni dell’imputato, infatti – per non turbare il piano ordito dai mandanti – quasi sempre muto nel processo.

A questa colossale falsificazione si è prestato, fino a non molto tempo fa, finanche qualche magistrato in servizio a Ragusa in quell’annus horribilis, evidentemente incapace di leggere le sentenze: altre spiegazioni sarebbero più gravi e inquietanti.

Oggi ho la sensazione, nuova e liberatoria, che tutto ciò potrebbe essere, definitivamente, alle spalle.

Alcuni fatti e segnali recenti lasciano sperare che la persecuzione ordita contro Giovanni Spampinato per decenni dopo la sua morte, oggi appartenga al passato e possa finalmente essere cessata.

Se la mia, oltre che una netta sensazione, è anche una speranza, essa è certamente ben riposta: nel libro del fratello Salvatore innanzitutto.