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Libera e la pretesa di mettere a tacere con espulsioni e querele. Per F. La Torre (cacciato con un sms), Ciotti è irrispettoso e autoritario. Tante le voci contro una finta antimafia, in cerca di soldi pubblici e attigua al potere

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Il caso di Giuseppe Leonelli – il giornalista direttore, all’epoca dei fatti, del quotidiano modenese Prima Pagina, querelato da Libera per avere osato dare notizie vere, di altissimo interesse pubblico, un interesse però, ahinoi, contrapposto a quello di Libera a vederle pubblicate – è solo uno dei tanti generati da quella macchina, che abbiamo definito ‘querelificio’, ormai collaudata e scagliata dall’associazione (curiosamente denominata ‘Libera, Associazioni nomi e numeri contro le mafie’) contro la ‘libera stampa’ che, evidentemente, Libera (caso questo di ‘nomen contra omen’) non tollera perché la ritiene nemica, ostile, comunque contraria o pericolosa per i propri interessi.

Di questi ultimi proprio la vicenda-Leonelli ci ha offerto un esempio attraverso la ricostruzione dei fatti che abbiamo dovuto documentare anche per informare cosa abbia inteso contrastare Libera con la propria azione giudiziaria, affiancata, o per meglio dire fiancheggiata, da un’accusa pubblica al giornalista di collocarsi oggettivamente al fianco della mafia per il solo fatto di avere parlato del reticolo dei lucrosi incarichi assegnati, in Emilia e in particolare nel Modenese da pubbliche amministrazioni ed enti targati Pd, a Vincenza Rando, numero due di Libera e capo dei suoi affari legali nonché avvocato operante a Modena, in un intreccio di commistioni, cointeressenze, sovrapposizioni di ruoli e contiguità che, in quanto incidenti sulla destinazione di danaro pubblico, meritava di essere reso di pubblica conoscenza. La risposta è stata la querela, nonché l’accusa di ‘mafiosità’ al giornalista mossa da Libera e dal Pd: la prima un’associazione privata che riceve ingenti somme pubbliche, il secondo un partito politico che in quel territorio è dominus del governo e del sottogoverno locale, nonché terminale di un sistema di potere che s’intreccia con gli affari di un vasto mondo imprenditoriale.

Non avendo spazio per trattare qui di tante altre querele, il caso prescelto ci ha però consentito di offrire l’idea dell’uso corrente, e nel contempo selettivo e mirato, che Libera (attraverso il suo numero due Vincenza Rando a ciò delegata) fa dello strumento giudiziario: così l’associazione, forte dei suoi bilanci milionari, del sostegno politico ed economico-finanziario che le deriva dalla commistione con un sistema radicato soprattutto, come nel caso dell’Emilia, in alcuni territori, nonché del potere d’influenza in alcuni settori della magistratura e negli ambienti giudiziari, può attaccare la libera stampa non allineata ai suoi interessi fino a schiacciarla, come la vicenda ci ha svelato, anche con l’abuso del ‘diritto’: l’accusa di mafiosità al giornalista era stata tranquillamente oggetto di una richiesta d’archiviazione ad opera di un pubblico ministero che nel contempo riteneva un reato, a suo avviso commesso dallo stesso giornalista, pubblicare notizie vere e di pubblico interesse.

Il caso prescelto inoltre ci ha consentito di imbatterci in una realtà per un verso segnata da quel sistema di potere e per un altro attraversata da un fiume mafioso come il processo Aemilia appena conclusosi, l’inchiesta Grimilde ed altre ci hanno raccontato, in un crocevia che nei decenni scorsi ha visto le cosche della ‘ndrangheta incunearsi e poi progressivamente stabilirsi e consolidarsi in quella realtà dominata da un partito politico sostenuto da una galassia di organizzazioni, imprese e holding finanziarie e al quale Libera è molto vicina e contigua fino a diventarne, in non poche biografie e interessi, beneficiaria e parte stessa.

Del resto è il suo stesso ‘certificato di nascita’ a svelare il ‘grembo’ di Libera ma tutto ciò avrebbe potuto segnare questo rapporto attraverso un ‘dna’ costituito unicamente da valori e principi che sicuramente sulla carta accomunano padre e figlia (lotta alle mafie, quindi libertà, rispetto della dignità umana, trasparenza della res pubblica e della sua gestione, democrazia, partecipazione, pluralismo, giustizia sociale) ma che nella realtà dei fatti appaiono totalmente distanti, ed anzi relegati in condizione opposta quando, come nel caso di Leonelli, Libera e il Pd assumono le posizioni che abbiamo visto a fronte del sistema e dell’intreccio d’interessi descritto. Peraltro, nelle vicende narrate, a venire in rilievo è una libera stampa non allineata ad interessi di gestione di Libera, ma pienamente e liberamente allineata ai valori, ai principi fondativi, alla missione e alle finalità di Libera.

Sull’atto di nascita torneremo. Qui basta rilevare che il caso Leonelli, e la sua contestualizzazione a Modena e nella regione emiliana – con l’irruzione sulla scena ormai da tempo, e il suo successivo insediamento nel territorio, della più agguerrita e pericolosa criminalità mafiosa, quella calabrese – ci hanno offerto spunti, elementi e chiavi di lettura interessanti nello sviluppo, nella documentazione e nell’approfondimento del tema di partenza.

Spunti che ci hanno fatto addentrare nel processo Aemila, il maggiore della storia italiana mai celebrato contro la ‘ndrangheta (frutto di un’operazione con 117 arresti nel 2015), sul quale il 6 maggio scorso la Corte di Cassazione ha scritto la parola fine confermando quasi tutte le condanne, circa settanta che si aggiungono alle quaranta definite con rito abbreviato; spunti che ci fanno fatto constatare la permeabilità di certe istituzioni alla pervasività delle ‘ndrine; lambire l’azione di contrasto di altre tra luci ed ombre, successi e fallimenti; osservare l’attività di Libera nel territorio, del suo capo indiscusso e indiscutibile Ciotti nonché della sua vice, altrettanto indiscussa e indiscutibile, Vincenza Rando.

E così tra prefetti e interdittive antimafia, procuratori e inchieste, azioni penali contro i mafiosi ed altre contro la libera stampa, incredibilmente accomunati gli uni e l’altra da un atto di rozza violenza politica e di barbarie giuridica che un giudice dovrà valutare, il caso Leonelli ci ha condotti dritti al punto: cos’è, cos’è diventata Libera da un decennio a questa parte dopo la fase gloriosa che l’ha vista nascere e crescere originando quel fenomeno vivo ed autentico della cosiddetta ‘antimafia sociale’ che in un periodo storico, tra fine anni ’90 e la prima metà del decennio successivo, ha saputo dare forza e linfa vitale all’opposizione culturale, civile e sociale contro le mafie?

Poi, dopo quella fase, già a ridosso degli anni ’10 più niente, solo un campionario di parole vuote, retorica, riti, atti di parvenza di esistenza in vita, buoni forse a giustificare un mutato modus operandi tra gestione, contiguità con il potere, scambi, relazioni, interessi, opacità, debolezze, reticenze, perfino sostegno ad indagati per mafia come mai era successo prima: è il caso delle parole, chiare e inequivocabili, pronunciate da Pio Luigi Ciotti nei confronti di Antonio Calogero Montante. E, come i lettori più attenti ben sanno, il problema non sta solo in quelle parole ma in una lunga sequenza di rapporti, silenzi e atteggiamenti che nella percezione di quanti hanno conosciuto da vicino l’anima di Libera della prima fase ne rappresentano uno sfregio.

Tant’è che da tempo si susseguono dichiarazioni pubbliche, riflessioni, notazioni critiche da parte dei più limpidi sostenitori dei valori morali e culturali di Libera, spesso fondatori e attivisti della prima ora i quali, ad un certo punto hanno sentito il bisogno di parlare, di non potere più tacere, proprio per il bene di Libera, dei suoi principi ideali e delle sue finalità ma, stando alla reazione, per il … male di Ciotti, di Rando e di un gruppo dirigente totalmente allineato a costoro in un regime da caserma e incapace di discutere.

Abbiamo già accennato al caso clamoroso di Franco La Torre, peraltro ancora responsabile di Libera Europa, il quale in Italia è stato cacciato con un sms da Ciotti solo per avere osato nel corso dell’assemblea nazionale (e quale migliore sede? Avrebbe dovuto scegliere segrete stanze?) esprimere dubbi e osservazioni pur nel pieno apprezzamento di Libera (è lui a raccontare l’incredibile vicenda l’1 dicembre 2015 all’Huffington Post, in un’intervista leggibile qui). 

Qui non serve sottolineare il cognome dell’espulso, figlio di Pio La Torre la cui vita e il cui sacrificio sono proprio la ragion d’essere di Libera e della sua missione, e non serve perchè Franco La Torre, a prescindere dall’essere ‘figlio di’, non nel suo nome ma nelle sue azioni quotidiane e nell’intera sua biografia è l’esempio vivo, pieno, concreto, compiuto e coerente della realizzazione degli ideali di Libera.

Visto che abbiamo fresco nella memoria il caso di Leonelli, rileviamo qui che il giornalista modenese si è trovato nei suoi articoli a citare Attilio Bolzoni il quale in un’intervista a ‘Themis & Metis’ afferma: <<bisognerebbe togliere per un paio d’anni finanziamenti alle associazioni antimafia e assisteremmo ad un ‘fuggi fuggi’ generale>>.

In effetti l’analisi di Bolzoni è molto interessante e va letta in ogni passaggio (leggibile qui) ma conviene comunque richiamare per intero la risposta sull’antimafia sociale.

Alla domanda <<La parola antimafia, crea molti imbarazzi ultimamente. Ma è necessaria questa etichetta per dimostrarsi ostili all’azione mafiosa?>> Bolzoni risponde: <<L’antimafia c’è sempre stata anche quando non si chiamava antimafia. L’antimafia moderna nasce subito dopo il delitto Dalla Chiesa e si è allargata, estesa e diffusa dopo le stragi del 92. Io credo che abbia avuto una funzione veramente importante l’antimafia sociale in Italia fino a qualche anno fa ma poi, c’è stata una degenerazione dello spirito originario. Bisogna fare una distinzione tra la mafia che si traveste da antimafia, tra sistemi imprenditoriali mafiosi che occupano potere e l’antimafia che è degenerata. E’ vero che ci sono dei cerchi che mettono in relazione queste tre realtà, però bisogna distinguerle. C’è l’antimafia dei finanziamenti pubblici da centinaia di migliaia di euro e l’antimafia dei funzionari delle grandi associazioni che provengono da un sottobosco politico. Bisognerebbe fare un esperimento: togliere per un paio d’anni un bel po’ di finanziamenti alle associazioni antimafia e assisteremmo ad un ‘fuggi fuggi’ generale.

<<In alcuni casi – osserva Bolzoni nell’intervista a T&M – c’è la complicità del ministero degli Interni che concede finanziamenti esorbitanti per dei progetti che, vien da chiedersi, saranno andati a buon fine con tutti i milioni stanziati? Ho conosciuto un signore di Avviso pubblico, che gira l’Italia battendo cassa alle amministrazioni per organizzare convegni con partecipanti zero. Sono personaggi improbabili che si improvvisano esperti di mafia, che parlano di legalità e che vanno in giro per l’Italia a proporre pittoreschi kit per la legalità. Ma intorno alla maggior parte di queste realtà c’è solo un obiettivo, rastrellare denaro pubblico. Bisogna chiudere i cordoni della borsa. Poi c’è un’antimafia sociale che è ostile ad ogni dialogo, alcune realtà sembrano sette, appena uno le critica viene accusato di essere mafioso. Io non ne posso più di questi predicatori della legalità, imbonitori e saltimbanchi. Hanno messo su un circo. E a proposito dei predicatori della legalità, è molto grande la distanza tra quello che urlano nelle piazze e quello che in realtà fanno. Un altro tema interessante è quello delle costituzioni di parti civile: quando un’associazione accompagna un commerciante, un imprenditore che denuncia la mafia lungo tutto il percorso – lo porta dalla polizia, dal magistrato, lo convince a collaborare – è giustissimo che si costituisca parte civile perché ha partecipato al percorso che porta al processo. Ma questo baraccone delle parti civili che c’è oggi in Italia è scandaloso.

<<Mi viene in mente – ricorda Bolzoni – un’associazione a Marsala che si chiama Paolo Borsellino, è formata da un solo avvocato che non fa nulla tutto l’anno, ma ha pensato bene di costituirsi parte civile al processo Aemilia e per questo ha ricevuto un risarcimento. C’è poi il caso di un comune sciolto per mafia – come quello di Brescello – che ha perfino ricevuto un indennizzo dopo la costituzione di parte civile al processo Aemilia. A questo punto credo che bisogna ridimensionare i finanziamenti alle associazioni antimafia perché sono emerse troppe vergogne>>.

L’analisi di Bolzoni è generale, ma non mancano i riferimenti precisi. L’accusa ad associazioni che agiscono come ‘sette’ purtroppo chiama in causa Libera che espelle Franco La Torre e accusa Leonelli di essere mafioso. Ancora più preciso e diretto poi è il riferimento ad ‘Avviso pubblico’, che è emanazione di Libera, il suo braccio nella pubblica amministrazione che abbiamo conosciuto nell’articolo precedente nella realtà emiliana, dove è nato e dove ha, meglio radicata che altrove, la base dei suoi interessi nella quale Vincenza Rando è preciso punto di riferimento.

E non si può certo dire che Bolzoni ce l’abbia con Libera. Come racconta nel libro ‘Il padrino dell’Antimafia’ e nel capitolo in gran parte dedicato a Libera ‘Una docile Antimafia’ Bolzoni aveva creduto ciecamente in Libera, donandole il cinque per mille, acquistando i prodotti delle sue cooperative nei supermercati, devolvendole persino l’intero compenso ricevuto per il film ‘Uomini soli’ dedicato alle vite di La Torre, Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino. Dopo tanti anni di questo sostegno pieno e convinto, nel 2019 Bolzoni scrive: <<l’antimafia in questi anni è stata vezzeggiata, blandita, incensata, leccata. Più vado avanti e più provo stupore per l’antimafia che quando va bene su Montante tace … ma l’amarezza più grande deve ancora venire. Arriva da Don Ciotti e da Libera…>> e Bolzoni racconta il perché, quando nonostante già a fine 2014 abbia avvertito personalmente Ciotti che Montante sia da tempo indagato per mafia, Libera non interrompa le relazioni e vada avanti negli affari previsti come i contratti di collaborazione con la Camera di Commercio di Caltanissetta presieduta da Montante e da lui gestita come cosa propria; quando ancora a febbraio 2016 Ciotti e Libera sono pubblicamente al fianco di Ivan Lo Bello, <<socio e compare di Montante>> e artefice con lui della falsa rivoluzione antimafia di Confindustria; quando a marzo 2016 Ciotti pronuncia parole di solidarietà, affetto e amicizia nei confronti di un indagato per mafia senza dire una parola a sostegno della magistratura, dello Stato e della legalità; quando non risponde all’invito di Report a rilasciare un’intervista per l’inchiesta trasmessa il 12 novembre 2018; ancora quando, per lunghi anni, tace sul sistema Montante.

Come già chiarito, Ciotti, nel processo di Ragusa, ha smentito di non avere voluto rilasciare l’intervista, se non per la propria indisponibilità di due mesi in estate dovuta a motivi di salute. Diverse le versioni di Report e la testimonianza di Bolzoni, le quali fanno riferimento al fatto che quella puntata fu preparata in un periodo ben più lungo nel quale, anche al di fuori di quei due mesi, Libera non rispose mai al pressante invito della redazione del programma.

Ne ‘Il Padrino dell’Antimafia’ Bolzoni si chiede poi <<cosa è accaduto all’antimafia sociale? Perché questa curva di sottomissione? Perchè quell’antimafia grida nelle piazze e poi si struscia nei palazzi? Perchè non accetta mai la seppur minima critica trasformandola odiosamente e sempre in macchina del fango?>> e aggiunge: <<a Ciotti … con tutto il rispetto … bisognerebbe ricordare che l’antimafia non si pratica con i diktat, le imposizioni, le espulsioni, gli anatemi, l’esclusione degli infedeli dalla comunità. L’antimafia non è accoglienza, non è accompagnamento, non è chiesa. Antimafia è democrazia…. Nel 2015 c’è la svolta di Libera … C’è la vergognosa cacciata di Franco La Torre … ci sono le dimissioni di dirigenti storici e dei dissidenti che avevano manifestato perplessità su una linea sempre più remissiva … Libera contrariamente a quanto ha fatto in numerosi processi non si è costituita nel procedimento contro Antonello Montante per associazione per delinquere e corruzione>>.

Su questo punto torneremo mettendo a confronto quanto scritto nel suo libro e ribadito al Tribunale di Ragusa da Bolzoni con le giustificazioni fornite in quella stessa sede da Ciotti e da Rando.

Con amarezza Bolzoni racconta ne ‘Il padrino dell’Antimafia’ come a maggio 2017, venticinquesimo anniversario delle stragi, egli avesse curato per la Repubblica uno speciale di otto pagine e realizzato un documentario trasmesso anche da Sky e come Giovanni Bianconi del Corriere della sera avesse pubblicato il libro ‘L’Assedio’ raccontando sconfitte e umiliazioni inflitte a Falcone dalla magistratura, mentre su Il Sole 24 Ore, il quotidiano di Confindustria sul quale Montante, nonostante da tre anni indagato per mafia, poteva ancora scorrazzare a piacimento, il giornalista Roberto Galullo <<soldatino agli ordini di Serradifalco>> (illuminanti i suoi rapporti con Montante svelati dai diari segreti, n.d.r.) non avesse invece trovato di meglio che una lunga intervista a Ciotti e, in video, a Tano Grasso>>. Come dire che, nel giorno in cui si ricordano le stragi e le loro vittime Falcone e Borsellino, per il quotidiano della Confindustria la voce più appropriata è quella di amici e fervidi sostenitori di un indagato per mafia.

Significativa la chiosa conclusiva di Bolzoni il quale ripensa alla conversazione con un amico il quale citando Hegel gli risolve l’enigma: <<la mafia ha culturalmente inglobato pezzi di antimafia … Tesi, Antitesi, Sintesi (le tre parole, in effetti riconducibili a Fichte, nelle quali si racchiude la dialettica hegeliana, n.d.r.): ovvero mafia, antimafia, con l’antimafia – ecco la ‘Sintesi’ – che ad un certo punto viene ingoiata. L’Antimafia che perde la sua libertà>> conclude Bolzoni.

In tema di querele abbiamo visto e analizzato anche nei dettagli il metodo di Libera: trascinare in giudizio piccole testate e giornalisti di periferia o poco noti, ottenere condanne o rimettere le querele in cambio di lettere di scuse – o, non di rado, di chiarimento ma sventolate pubblicamente come lettere di scuse – per poi poter dire “Siamo vergini e senza macchia, in Tribunale abbiamo sempre vinto”.

Ma non è solo dalla libera stampa (o da una, piccola, sua parte) che si sono levate voci critiche e desiderose di verità contro una certa narrazione preconfezionata e alimentata continuamente dalla stragrande maggioranza del sistema dei media. Anche varie personalità, intellettuali, politici, attivisti o ex attivisti e fondatori di Libera, esponenti della cultura, magistrati o ex hanno espresso critiche. In quei casi, come per Franco La Torre, è scattata una reazione indegna di ciò che dovrebbe essere Libera, ma degna  evidentemente di ciò che è o che, ormai da diversi anni, è diventata.

Senza alcuna pretesa di esaustività sono tante queste voci, emerse in varie forme e levatesi con diversa intensità nelle situazioni date.

Già nel 2013 lo scrittore e giornalista Luca Rastello pubblica un romanzo – e ne accenniamo appena, trattandosi appunto di un romanzo – ‘I buoni’, che affronta vicende interne di un’associazione in una rappresentazione che fa pensare a Libera, ma, come ben sappiamo, anche altre associazioni hanno vissuto e vivono tuttora il declino e la crisi dell’intero movimento dell’antimafia sociale. Critiche all’autore giungono da zelanti sostenitori di Libera alle quali l’autore replica: ho scritto un romanzo, altre volte ho realizzato inchieste.

Un magistrato come Raffaele Cantone noto per le sue inchieste contro la camorra e il clan dei casalesi, nella sua qualità di presidente dell’Anac, l’Autorità nazionale contro la corruzione, subito dopo la nomina, in un’intervista a Il Mattino il 4 maggio 2014, denuncia un fenomeno evidente che rende <<l’antimafia un lavoro qualsiasi, a pagamento, con soldi pubblici>> ed il rischio che a causa di tale ingente flusso di danaro pubblico e della sua cattiva gestione, i veri volontari antimafia animati da passione civile e disinteresse personale siano allontanati.

Il 21 maggio 2015 Davide Pati, dirigente di Libera e responsabile del settore beni confiscati, in un’intervista a Tv2000, analizzando la situazione e tracciando un bilancio dell’antimafia sociale parla di <<pochi successi, tanti fallimenti e forti criticità>>, aggiungendo che <<siamo partiti dall’insegnamento di Pio La Torre>>. Appunto … <<siamo partiti>> evidenzia Pati ma, potremmo aggiungere una domanda: dove “siamo arrivati?”. E una risposta, scandalosa e scioccante, alla domanda da noi qui ipotizzata, è nei fatti: arriva sei mesi dopo, a novembre 2015, quando Franco La Torre viene cacciato da Libera, nei giorni in cui Piero Grasso, senatore eletto nel Pd e allora presidente del Senato, figura certo non ostile a Libera e al suo terreno di azioni e interessi, invita  il fronte antimafia <<a guardare al proprio interno e ad abbandonare protagonismo, pretesa primazia di ogni attore, corsa al finanziamento pubblico e privato>>.

C’è poi l’appello di Nicola Gratteri, magistrato tra i più efficaci e vincenti contro le cosche, però isolato e spesso combattuto dentro la magistratura per la sua estraneità alla correntocrazia e alla logica dei sistemi di potere che i casi Palamara e Amara hanno smascherato. Gratteri, bocciato di recente, come tempo fa successe a Giovanni Falcone, nella sua candidatura a capo della Procura antimafia, ad agosto 2015 lancia un appello a fermare il flusso di danaro alle associazioni di ‘finta antimafia’. Erano già deflagrati i casi degli anni ’10 di Roberto Helg, paladino della legalità arrestato mentre intasca una tangente, Massimo Ciancimino, Silvana Saguto della quale si è detto, Adriana Musella, Rosy Canale. E poi sarebbe esploso il caso Montante, a gennaio-febbraio 2015 con la pubblicazione della notizia dell’inchiesta per mafia nei suoi confronti e con l’arresto a maggio 2018, seguito dalla condanna a maggio 2019.

A gennaio 2016 fa sentire la sua voce Giuseppe Di Lello, all’epoca ex parlamentare dopo essere stato, da magistrato negli anni ‘80, nel pool antimafia con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, chiamato dal capo dell’Ufficio istruzione Antonino Caponnetto. In un articolo su L’Espresso, dopo avere analizzato la consistenza, le nuove sembianze e l’evoluzione della mafia scrive: << Qui si inserisce il grande tema dei beni sequestrati o confiscati, un immenso patrimonio sul quale sono cresciute associazioni e cooperative che hanno visibilmente realizzato lo spirito della legge per l’uso sociale di detti beni. In mancanza di filtri, però, nei varchi si sono insinuati troppi soggetti in cerca di affari. Complici colposi la farraginosità e la lentezza delle procedure, l’incapacità dello Stato e delle sue agenzie di gestire in tempi rapidi l’assegnazione, il dissesto finanziario e burocratico delle amministrazioni locali che non hanno mezzi per gestire i beni assegnati. Da qui una immensa quantità di aziende che falliscono o di immobili che da anni si deteriorano, che spesse volte, pur dopo la confisca, rimangono nella disposizione dei mafiosi e che, comunque, fanno solo la fortuna degli amministratori giudiziari mentre l’uso sociale rimane al palo>>. E qui Di Lello affronta un punto nodale che lo contrappone alla teoria di Ciotti, contrario alla vendita dei beni: <<Qualche rimedio – osserva Di Lello – sarebbe utile, rimanendo sul terreno della concretezza. Molti immobili inutilizzati o inutilizzabili, e che comunque rimangono sotto amministrazione giudiziaria procurando solo oneri per lo Stato, andrebbero alienati. Si obietta che tornerebbero ai mafiosi, ma si dimentica che per riacquistarli questi dovrebbero pagarli e quelle somme potrebbero essere utilizzate dalle amministrazioni locali per gestire altri beni destinati ad usi sociali. In più, il bene riacquistato, dato l’affinamento dei mezzi di indagini patrimoniali, potrebbe essere di nuovo sequestrato e confiscato>>. E poi l’analisi cruda della realtà in cui si muove Libera: <<Nella giungla delle tante sigle si sono inserite persino associazioni e cooperative costituite da soggetti mafiosi e quindi sono necessarie serie riflessioni. Il “disagio” di Franco La Torre ed altri sul ruolo di Libera, per esempio, non va demonizzato ma analizzato e verificato. Libera ha avuto ed ha grandi meriti nel campo dell’antimafia ma bisogna capire che il pericolo di monopoli o oligopoli nelle assegnazioni va contrastato, non “contro” qualcuno, ma proprio per far crescere ed allargare il fronte antimafia>>.

Il 13 marzo 2016 (tre giorni prima che Ciotti rilasci a Meridionews la sconvolgente intervista contenente parole a sostegno di Montante indagato per mafia e non dello Stato che attraverso la Procura di Caltanissetta da due anni sta svolgendo una storica inchiesta contro il falso paladino antimafia amico di Libera) il quotidiano La Sicilia pubblica un’intervista di Mario Barresi a Nicolò Marino che spiega come la fine di Montante coincida con il suo arrivo all’Anbsc (l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati) avversato da Libera. Marino, per la cronaca, è un magistrato, attualmente Gip a Roma, nominato assessore regionale nella giunta Crocetta a novembre 2012, cacciato un anno e mezzo dopo quando appare chiaro che egli osi deludere le aspettative dei signori delle discariche ben protetti dal sistema-Montante. <<Mi sta chiedendo – a parlare è Marino – se c’entri don Ciotti con Libera? Io sono convinto che questo scontro nasca proprio da Libera che poi incappa nello stesso errore. Perché diventa un’altra struttura, non più spontanea. Ma è un altro discorso>>. Il dialogo prosegue così: <<Cosa le fa pensare che c’entri Libera?>> chiede il giornalista. <<E’ una mia idea, io ne sono convinto, ma non ho elementi per dimostrarlo. Posso solo dire che l’unico dato non allineato al consenso che viene fuori dopo la nomina di Montante nel Cda dell’Agenzia è la posizione di Libera che comunque fino a quel momento non era certo in contrasto con quella Confindustria>>. In che senso? <<Io feci una conferenza, assieme a don Ciotti, in una scuola di Lentini alla quale era stato assegnato un bene proprio da Libera. In quell’occasione non posso dimenticare che don Luigi, persona di grandissima cultura, tesseva le lodi pubbliche di Montante e di Lo Bello. E io nel mio intervento anche allora lo criticai….>>. Quindi Marino dà atto a Libera di non essersi allineata al consenso espresso da più parti alla nomina di Montante nel consiglio direttivo dell’Anbsc: su questo dato torneremo, anche per fare chiarezza storica; da rilevare però che Marino è perentorio nel ricordare come Ciotti, <<persona di grandissima cultura>> tessesse le lodi pubbliche di Lo Bello (che non è il tema di questi articoli) e di Montante il cui linguaggio è scolpito nelle intercettazioni: e non è tanto un problema di ‘cultura linguistica’ (e non è un bel sentire), quanto di cultura del sopruso, dell’abuso, dell’asservimento delle pubbliche istituzioni, della violenza, della minaccia, dell’intimidazione, della sopraffazione, della persecuzione criminosa di chiunque non si pieghi.

A ottobre 2016, come abbiamo già visto sicché può bastare un breve cenno utile alla sequenza cronologica,  Francesco Forgione pubblica il saggio ‘I tragediatori: la fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti’. L’autore, ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, politico e intellettuale di sinistra da sempre in prima linea nella battaglia culturale e istituzionale contro le mafie, dedica un intero capitolo a Libera della quale riconosce i meriti acquisiti in precedenza, ma afferma: <<un fatto però è certo: nell’opinione pubblica la verginità di Libera è perduta>>.

Nella sua relazione conclusiva approvata il 21 dicembre 2017, la Commissione parlamentare Antimafia della precedente legislatura presieduta da Rosy Bindi, scrive: <<l’antimafia sociale diventa più simbolica e rituale che sostanziale … spesso si trasforma in una scatola vuota o in uno strumento dialettico per giustificare scelte, posizione e poteri. Nel movimento antimafia si muovono personaggi in cerca d’autore, persone al limite della millanteria … nelle scuole a parlare di antimafia sociale sono inviate persone che nulla ne sapevano … messi sul podio eroi di carta o protagonisti di comportamenti illegali applauditi in memorabili standing ovation … c’è un rischio autoreferenzialità>>.

Giacomo De Girolamo, giornalista di Tp24 e di Radio Montecarlo, nel libro ‘Contro l’antimafia’, pubblicato da Il Saggiatore nel 2016, segnala un conflitto d’interessi del direttore di Libera Luigi Lochi nel contempo dirigente di Sviluppo Italia negli anni ’91-’99, poi dal 2015 consulente di Invitalia, l’azienda che, in virtù della cosiddetta norma-Saguto si trova a gestire i beni sequestrati alla mafia. Per la cronaca Silvana Saguto è l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, espulsa dalla magistratura e condannata a ottobre 2020 ad otto anni e mezzo di reclusione per corruzione ed altri reati, per avere ricavato danaro e vantaggi privati, per se, amici, parenti e per la sua cricca di amministratori giudiziari e consulenti appositamente nominati, dalla gestione dei beni che lei stessa contribuiva a fare sequestrare e confiscare. E a proposito di direttori di Libera, De Girolamo annota anche il caso di Enrico Fontana trovatosi in un intreccio di consulenze poco consono con lo statuto, morale prima che giuridico, dell’associazione.

Nel 2018, il 27 agosto – tre mesi e mezzo dopo l’arresto di MontanteAngelo Venti, in precedenza referente di Libera in Abruzzo fino all’inquietante cacciata di Franco La Torre a novembre 2015, in un articolo pubblicato sul sito www.site.it dal titolo “Montante e gli amici dell’antimafia: Tano Grasso e don Ciotti” scrive di avere prova che Ciotti e la dirigenza di Libera erano a conoscenza sin dagli ultimi mesi del 2014 dell’inchiesta che incombeva su Montante, così come già confermato da Bolzoni nel suo libro e ribadito nel processo di Ragusa. <<A Libera sapevano cosa stava accadendo a Caltanissetta e siamo in grado di provarlo anche documentalmente>> scrive Venti il quale poi rileva come <<sul contenuto e sui motivi delle 26 telefonate nel diario di Montante non vi è nessun accenno: magari dei chiarimenti potrebbe fornirli la direzione nazionale di Libera>>.

Per la cronaca, dopo un lungo silenzio durato due anni (dalla pubblicazione dei diari segreti di Montante ad agosto 2018) nel processo in corso a Ragusa che mi vede imputato, Ciotti, il 14 luglio scorso, conferma quelle 26 telefonate, precisando di averle ricevute e di non avere risposto.

Nell’inchiesta di Report andata in onda il 12 novembre 2018, Nicolò Marino, definisce  <<il sistema Montante un’antimafia con metodo mafioso>>. Per la cronaca è quel sistema sul quale Ciotti continua a non dire una parola, mentre in tanti e da molto prima rilevano anomalie, finzioni, mistificazioni. Del resto a marzo 2016, cioè nei giorni in cui Ciotti rilascia dichiarazioni di stima e amicizia all’indagato per mafia Montante, per lui ancora ‘Antonello’, Marino dichiara al quotidiano La Sicilia: <<tutta Caltanissetta sa chi è Montante, c’è una parte che lo teme e un’altra che lo rifugge. Io prescindo dall’esito dell’indagine perché la magistratura non può svolgere la funzione di supplenza sotto il profilo morale, etico, amministrativo, politico. Sono proprio le istituzioni che hanno consentito la crescita di Montante ad avere il dovere di non stare più in silenzio. Proprio per dimostrare di non essere asservite a quel sistema che si spera abbiano supportato involontariamente>>.

Se si considera che queste parole di Marino sono pubblicate il 13 marzo 2016, fa impressione che quelle di Ciotti con dedica d’amore ad ‘Antonello’ giungano tre giorni dopo. Se Marino invocava la fine del silenzio, anche come prova che “le istituzioni che hanno consentito la crescita di Montante” non erano asservite e lo hanno supportato involontariamente, eccolo servito: il silenzio, in questo caso quello di Libera e di Ciotti, non c’è più, ma le parole pronunciate sono molto peggio, sono un messaggio chiaro e vanno nella direzione opposta a quella auspicata da Marino.

Nel contesto già illuminato dall’inchiesta della Procura nissena sul sistema Montante, la Commissione antimafia dell’Assemblea regionale siciliana a marzo 2019, dopo un meticoloso lavoro di ricostruzione dei fatti, nella relazione conclusiva approvata all’unanimità parla di <<anarchia istituzionale>>, <<promiscuità malata>>, di <<aura dell’antimafia usata per colpire disobbedienti e nemici>> mentre <<molti sapevano e hanno taciuto>>.

Il 30 aprile 2019, quando l’inchiesta sul sistema-Montante ne ha svelato gli intrecci ed è imminente la sentenza del Tribunale (poi emessa il 10 maggio) il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra dichiara: <<il caso Montante lascia sgomenti per la capacità di infiltrazione nelle istituzioni, ma ancora di più lascia sgomenti il silenzio, generale, che si vuole fare calare su questo processo. La nuova puntata di Report realizzata da Paolo Mondani e trasmessa il 29 aprile 2019 continua a produrre squarci di verità di commistioni tra apparati dello Stato>>. Morra quindi definisce  il sistema Montante <<una vera e propria loggia che agisce contro lo Stato>>; sottolinea l’importanza della relazione conclusiva della Commissione parlamentare dell’Assemblea regionale siciliana per osservare che <<eppure, tutto tace>>; evidenzia la gravità del caso ‘Banca Nuova’ (la Banca dei servizi segreti spesso deviati e di fatto a disposizione del sistema-Montante) di Gianni Zonin, il vignaio di Gambellara fattosi banchiere – condannato lo scorso anno a sei anni e mezzo di reclusione per il crac da un miliardo della Popolare di Vicenza che ha mandato in fumo sette miliardi di risparmio di centinaia di migliaia di famiglie – e da tempo, nel 1997, sbarcato in Sicilia con l’acquisto a Riesi di 200 ettari di vigneto, una delle maggiori estensioni d’Italia: vigne e sportelli bancari, cantine e operazioni spericolate. Gli affari siciliani di Zonin si muovono sul doppio terreno e quella puntata di Report documenta benissimo natura e missione di Banca Nuova, insediata da Zonin in Sicilia subito dopo il suo arrivo nell’isola, crocevia di traffici e trame di quanti, si scoprirà diversi anni dopo, agiscono nel ‘sistema’: agenti e dirigenti dei Servizi segreti, vertici delle forze dell’ordine arruolati da Montante e tanti altri.

Morra infine segnala la stranezza della mancata costituzione di parte civile nel processo da parte del Ministero dell’Interno, la prima vittima di uno dei più importanti filoni criminali del sistema Montante .

Il 3 maggio 2019 esce un numero speciale di Micromega dedicato interamente al tema Giustizia, in occasione di convegno ‘Giustizia e Libertà’, una tre giorni a Fabriano sulla quale sono puntati i riflettori dei media nazionali e internazionali.

Il numero raccoglie articoli di Caterina Malavenda (Libertà d’informazione o libertà di querela), di Giancarlo Caselli (Il mafioso Giulio Andreotti), di Fiammetta Borsellino (’25 anni di depistaggi, tracce di mafia nel cuore dello Stato’) e tanti altri: ‘Impunità in divisa’, ‘Perché i reati dei colletti bianchi minacciano la democrazia’, ‘Impunità moneta di scambio tra Stato e mafia’, ‘Roma laboratorio criminale’, Roma caput mafiae’. Della cosiddetta antimafia sociale si occupa Danilo Chirico, presidente di ‘Da Sud’, il quale scrive: il movimento antimafia o trova il modo di uscire dalle stanche ritualità o è destinato a morire.

Il dibattito è vivo, sulla stampa, nella saggistica, nei convegni, nei corpi sociali, nelle associazioni civiche e culturali. Il 3 maggio 2019 il Fatto quotidiano, in un articolo di Mario Portanova, descrive le relazioni pericolose di Montante con varie figure, attivisti antimafia, da Tano Grasso firmatario di un comunicato di solidarietà a Montante dopo la pubblicazione da parte di Repubblica dell’articolo sull’inchiesta per mafia nei suoi confronti a <<Ciotti, troppo lento e tiepido – scrive citando Bolzoni – nel prendere le distanze da un personaggio con cui Libera aveva avuto rapporti fitti>>.

Il 20 maggio 2019 il quotidiano La Sicilia in un articolo sulla presentazione a Catania del libro di Bolzoni riporta le parole del procuratore Carmelo Zuccaro che definisce il sistema Montante <<implicitamente mafioso>>, riferisce poi che <<dal convegno emerge la necessità di una rifondazione del movimento antimafia>> e, ancora con le parole di Zuccaro, che  <<c’è un’antimafia che è stata infiltrata e un’antimafia che ha commesso errori di valutazione>>. Nello stesso contesto Nicola Grassi, presidente dell’Asaec, l’associazione antiestorsione Libero Grassi, dichiara: <<il sistema Montante rappresenta la patologia di un fenomeno molto grave, la profonda crisi che il movimento antimafia sta vivendo. Da parte di alcune associazioni antimafia, come la Fai e Libera, all’indomani della condanna non ci sono stati commenti: bisognerebbe avere il coraggio di ammettere che si è sbagliato, per rifondare questo movimento, e invece è proprio questo che si fatica a fare>>.

Con quest’ultima citazione siamo a maggio 2019 e Libera continua a rimanere reclusa nella sua ombra, silente, imbarazzata, incapace di dire parole chiare. Parole che Ciotti avrebbe dovuto pronunciare diversi anni prima, quando già nel 2014 sa dell’inchiesta su Montante accusato di reati di mafia e, soprattutto, quando tutti, dal 9 febbraio 2015, attraverso il quotidiano la Repubblica, scoprono l’inchiesta e via via non pochi dei fatti su cui essa si fonda.

Due mesi dopo, il 13 luglio 2019, in un evento a Castrofilippo in cui si parla di lotta alla mafia e delle imposture dell’antimafia di facciata, Ciotti interviene pubblicamente ma, come già riferito, solo per dire  << non ho biciclette, non ho fatto conferenze con questo signore, non ho chiesto soldi a nessuno. L’unica volta che sono andato a incontrarlo sono andato con il prefetto … Libera non è perfetta ma è pulita e trasparente. Tutte le cause per diffamazione le abbiamo vinte. Ma uno non vorrebbe che in questo paese si giocasse per destabilizzare. Posso capire che i mafiosi ci attacchino … ma non posso capire questi atteggiamenti da altri che si riempiono la bocca di legalità e giustizia>>.

Abbiamo già ampiamente analizzato queste parole. Qui possiamo solo ribadire che non sono certo sufficienti a spiegare, a chiarire, ad offrire all’intera comunità di Libera la verità (Verità dovrebbe essere il suo tratto fondativo e distintivo) sulla devianza e sullo sbandamento durati molti anni in un rapporto malato con l’impostura di Lo Bello e Montante, con gli affari e gli interessi di quest’ultimo, con il suo mondo smascherato dall’inchiesta di magistrati e investigatori onesti e fedeli allo Stato, coraggiosi, competenti, rigorosi e inflessibili. Magistrati e investigatori ai quali Ciotti, a differenza che in tante altre inchieste, non esprime attestazioni di stima, prigioniero di una linea oscillante, nel caso Montante, tra il silenzio dell’equidistanza (dallo Stato che persegue la mafia e da quest’ultima) e le parole di amicizia e affetto dedicate ad un indagato per mafia.

Più di recente, il 3 febbraio di quest’anno, nel discorso di reinsediamento dopo l’elezione-bis, Mattarella pronuncia 38 volte la parola dignità, ogni volta, sempre scandita da applausi dell’intero Parlamento, seguita da una frase che ne coglie l’essenza. Una di queste è: <<dignità è un paese libero dalle mafie, dalla complicità di chi fa finta di non vedere>>. Quasi certamente Mattarella non si riferisce a Libera, né ad alcuna associazione antimafia in particolare, ma il pensiero di molti corre lì, o anche lì.

Montante, ben prima di essere indagato e smascherato, quando era riverito e corteggiato da uno stuolo di questuanti – tra i quali magistrati, alti esponenti delle forze dell’ordine, prefetti e sedicenti servitori dello Stato di varia natura – in cerca di favori, raccomandazioni e prestazioni di traffico d’influenze, come ricorda Attilio Bolzoni ne Il Padrino dell’Antimafia, veniva appellato ‘Al Cafone’ e il suo operato, in totale contrasto con il suo dire, per molti anni fu sicuramente beneficiato da questa ‘finzione del non vedere e non sentire’ da parte di molti la quale peraltro è solo la migliore delle ipotesi utili a spiegare come la grande impostura sia potuta nascere e crescere così a lungo e a dismisura.

Perfino nella querela, presentata il 16 gennaio 2019, da cui origina il processo di Ragusa, Ciotti non pronuncia mai una parola su Montante indagato per mafia, limitandosi a fare riferimento, per cenni obbligati e con parole neutre (vicenda, caso, vicende, sistema) e senza mai pronunciarla, all’inchiesta per associazione per delinquere di cui era già in fase avanzata il processo poi sfociato nella condanna di Montante il 10 maggio 2019. Eppure tale inchiesta è divenuta nota solo con l’arresto il 13 maggio 2018, mentre quella per reati di mafia risale al 2014 e Ciotti ne viene informato ben prima che la notizia, il 9 febbraio 2015, diventi pubblica.

In effetti ancora oggi non risulta che l’associazione capeggiata da Ciotti abbia avuto il coraggio di esprimersi con chiarezza sul sistema-Montante e sui suoi rapporti di lunga data con l’impostore di Serradifalco spacciatosi per simbolo di legalità e di lotta al crimine essendo in realtà ben altro e tutt’altro e però in piena sintonia con un vasto mondo dell’antimafia sociale di cui Libera è l’espressione principale.

Ai lunghi silenzi e alle poche cose dette e già riferite (alcune ben più gravi dei silenzi), va aggiunta una nota pubblicata da Libera sul proprio sito, non a firma del suo presidente Ciotti come la gravità dei fatti e la necessità di una voce al massimo livello di responsabilità avrebbe richiesto, ma di Lorenzo Frigerio, un giornalista che cura il sito dell’associazione. La nota segue di pochi giorni la trasmissione di Report, a novembre 2018, ed è un articolo involuto e contorto, pieno di allusioni, che incensa Libera e schiva il problema dei rapporti con Montante.

Inoltre cade nel vuoto l’appello, ‘Sveglia Libera’, di Report su facebook dopo la trasmissione, quasi un invito affettuoso e benevolo <<a tornare più vigile, meno consociativa, più fresca e meno paludata>>. Non solo Ciotti non pronuncia una parola, ancora a novembre 2018 quando è da tempo tornato alla piena operatività, visto che nel processo di Ragusa ha detto di non avere potuto rispondere alla richiesta di intervista di Report per un problema di salute durato due mesi in piena estate. L’articolo di Frigerio non affronta neanche il tema, Libera inoltre ignora l’invito-appello di Report su facebook e dentro l’associazione scatta la caccia al colpevole, all’ispiratore della trasmissione di Report  dal titolo ‘L’apostolo dell’Antimafia’. E nei corridoi della sede, secondo quanto si apprende, qualche giorno dopo sentono urlare più del solito un Ciotti infuriato.

Delle parole pronunciate da Ciotti a luglio ’21 nel processo di Ragusa abbiamo detto ampiamente negli articoli precedenti: neanche un frammento di analisi sul sistema Montante, sui rapporti dell’ex presidente di Confindustria Sicilia con Libera e sui silenzi propri e dell’associazione: eppure il processo verte proprio su questo, visto che è su questo che Libera si ritiene diffamata e l’exceptio veritatis in un processo per diffamazione a mezzo stampa è ineludibile.

Per completezza c’è da aggiungere la coda polemica, un mese prima, alle dichiarazioni alla stampa di Carlo Taormina, difensore di Montante nel processo d’appello a Caltanissetta, dopo l’udienza del 12 giugno ’21: <<L’artefice della vicenda beni confiscati – disse l’eccentrico avvocato –  sulla base dello schema di don Luigi Ciotti è stato sicuramente l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni. C’era uno schema di don Ciotti sulla modalità di gestione dei beni confiscati nell’ambito dell’agricoltura che naturalmente è stato importante per la costituzione dell’agenzia, anzi Ciotti invogliò Montante a diventare componente dell’Agenzia dei beni confiscati, lo vedeva come una persona adatta. Così come hanno fatto molti altri, tanto è vero che c’era una sorta di vocazione che Montante potesse diventare presidente dell’Agenzia dei beni confiscati’. Ma poi, nel 2015, era arrivata la notizia dell’inchiesta a carico di Montante per concorso esterno in associazione mafiosa>>.

Immediata, questa volta, la replica di Libera per bocca di Ciotti che reputa quelle affermazioni «false e prive di qualsiasi fondamento e per questo ci si tutelerà nelle sedi competenti. Libera – spiega Ciotti – è contraria alla vendita generalizzata sul libero mercato dei beni confiscati, una posizione agli antipodi rispetto alla strategia dello stesso Montante sul ruolo e funzione dell’Agenzia beni confiscati come riportato dalle dichiarazioni rilasciate dal suo legale ai giornalisti». Inoltre «ben prima che si avesse notizia dell’inchiesta sul sistema Montante», Libera «aveva segnalato ufficialmente al governo presieduto all’epoca da Matteo Renzi le proprie perplessità sulla nomina e ruolo di Montante, per motivi di opportunità, nel consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati non ottenendo, peraltro, una risposta positiva. Le dichiarazioni dell’avvocato Taormina – conclude Ciotti – non si comprendono e confondono e tutto questo non aiuta la ricerca della verità».

Se in quel momento si poteva pensare ad un’autonoma iniziativa di Taormina, la lettura testuale dei verbali di quell’udienza conferma che le parole del difensore riassumono e rispecchiano fedelmente quelle dell’imputato Montante. Il quale ai giudici della Corte d’Appello chiarisce che la sua idea, se fosse rimasto nell’Agenzia magari con un ruolo di manager cui aspirava, era quella di applicare lo schema-Ciotti, cioè gestire i beni confiscati come ha dimostrato di saper fare il presidente di Libera, in tutti i settori e non solo nell’agroalimentare.

9 – continua

Gli articoli precedenti sono stati pubblicati il 6 febbraio (leggibile qui), l’11 febbraio (leggibile qui), il 24 febbraio (leggibile qui) l’8 marzo 2022 (leggibile qui) il 26 marzo (leggibile qui) il 25 aprile (leggibile qui ), il 29 aprile (leggibile qui) e il 3 maggio (leggibile qui)