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Definitiva l’assoluzione per le denunce sul malaffare Rai. Di Natale: ecco perchè nessuno ha impugnato la sentenza. Nessuna calunnia, solo verità, più forte di ogni sopruso

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Qualche lettore attento, a conoscenza delle vicende che mi hanno visto involontario protagonista di uno scontro, anche legale, con la Rai, ha scorto indirettamente, nelle battute finali del mio recente articolo dal titolo “Gherardo Colombo e la Rai dei peggiori: se anche un ‘campione etico’, messo dinanzi ai fatti … si perde”   (clicca qui)     una notizia che – mi è stato rimproverato – avrebbe dovuto essere oggetto da parte mia di tempestiva e dettagliata divulgazione.

Accolgo la ‘contestazione’, provo a giustificarmi con le tante notizie ben più rilevanti che meriterebbero di essere pubblicate e approfondite e provvedo adesso, anche per tentare di continuare a meritare l’attenzione – e, talvolta, i segni di stima che ne derivano – che il caso, con tutti i suoi sviluppi, almeno tra le persone comuni e nel libero dibattito pubblico ha suscitato.

La notizia era, al di là delle mie intenzioni, nelle parole finali dell’articolo sopra richiamato e, per quanto liquidata in due parole, un avverbio e un aggettivo, non è sfuggita a lettrici e lettori attenti: <<…Io, da quel processo, dopo dieci anni, sono uscito definitivamente, con sentenza irrevocabile di assoluzione perchè il fatto non costituisce reato: avevo detto la verità. L’avevo scritta dovunque. Anche … sui muri>>.

Ecco dunque la notizia. Il 7 febbraio scorso è diventata irrevocabile, perché non impugnata, la sentenza, emessa il 21 giugno dello scorso anno dal Tribunale di Palermo, di assoluzione nei miei confronti – unico imputato – dal reato di calunnia. Avevo segnalato, in difesa del Servizio pubblico, pratiche di malaffare affinchè vi si ponesse fine. La Rai per tutta risposta mi ha licenziato e il diretto interessato è riuscito incredibilmente a farmi incriminare per calunnia. Dopo dieci anni la sentenza d’assoluzione (avevo detto la verità) che pochi giorni fa è divenuta irrevocabile.

Potevano impugnarla, e avevano tutto il diritto di andare avanti nel giudizio, sia la parte civile, ovvero Vincenzo Morgante autore della querela da cui il processo è scaturito, che il pubblico ministero il quale non solo nel 2013 aveva sostenuto a suo tempo la necessità del processo contro di me ma, più di recente, nella requisitoria del 14 giugno 2021 aveva chiesto la mia condanna, sia pure al minimo della pena che, per questo reato, non è una cosa da niente, due anni di reclusione: il massimo è sei ma ci sono fattispecie più gravi in cui per calunnia si può essere condannati fino a quindici anni.

Ora, siccome sono, insieme a tutto il resto, anche un vecchio cronista di giudiziaria, so bene che non accade quasi mai che un pubblico ministero che chieda la condanna di un imputato poi non impugni la sentenza d’assoluzione, tanto più quando tale assoluzione è ‘piena’ come nel mio caso essendo stata disposta perché “il fatto non costituisce reato”, quindi con una delle formule nette che non contemplano alcun dubbio. Le altre più ricorrenti e che qui vengono in rilievo sono ‘perché il fatto non sussiste’ e ‘per non aver commesso il fatto’, ma queste due sono incompatibili con il mio caso in quanto il fatto sussiste e io certamente l’ho commesso, come ho ‘confessato’ e rivendicato con orgoglio: avere scritto, firmato e inoltrato ai destinatari indicati l’esposto contenente le denunce sul malaffare dentro la Rai.

Devo confessare di avere pronosticato con assoluta consapevolezza, pronto perfino a scommettere – se qualcuno convinto del contrario, più o meno goliardicamente, avesse voluto farlo (diverse persone ne sono testimoni) – che sarebbe andata così: ovvero che né Morgante, né il pubblico ministero avrebbero impugnato la sentenza. Provo a spiegare perché ero sicuro che sarebbe andata così e avrei certamente vinto qualunque scommessa su questo punto.

Cominciamo dalla parte civile.

Morgante presentò quella querela nel 2011 per varie ragioni e proprie valutazioni di utilità e di risultato.

La prima è che l’allora capo redattore Tgr Sicilia – poi, dopo il mio licenziamento nel 2013, promosso a direttore dell’intera Tgr; nel 2018 uscito dalla Rai dopo lo scandalo-Montante; attualmente direttore di Tv2000, la Tv dei vescovi italiani – aveva ottenuto, nella Rai del malaffare, il totale sostegno di chi trattava il dossier delle mie segnalazioni sulle commistioni private nel Servizio pubblico, sul prodotto di Tgr Sicilia e sulla gestione della redazione da parte dello stesso Morgante: un sostegno reso esplicito dal palese imbroglio con cui la Direzione risorse umane e l’Internal Auditing Rai, ad aprile 2011 (la querela è di luglio 2011) avevano avviato con attestazioni false e mistificanti l’indagine interna che avrebbe ‘scagionato Morgante’ e dipinto me come un bugiardo e, appunto, un calunniatore. Probabilmente per ottenere questo sostegno, concretatosi nella falsificazione dei dati di realtà, Morgante aveva annunciato di querelarmi per calunnia e, quindi, l’ha fatto o ha dovuto farlo. Poi per farmi incriminare (e nei suoi piani anche condannare) ha utilizzato l’armamentario farlocco cucinato dalla Rai con quel falso Auditing.

La seconda è che, comunque, Morgante, forte dei preziosi servigi di Antonello Montante, presentò quella querela in totale sicurezza e controllo delle sorti processuali della sua azione, architettata, calibrata e concertata perché conducesse alla mia condanna. Era il 2011 e Antonio Calogero Montante, geniale impostore a capo di Confindustria Sicilia – dal 2014 accusato di mafia, poi condannato in primo grado per associazione per delinquere e per altri reati, nonché pluri-imputato  – disponeva a piacimento di magistrati, vertici delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, ministri, politici, burocrati, prefetti cui regalava carriere dorate se obbedienti fino al totale asservimento della funzione, giornalisti e potenti d’ogni tipo. Tra gli amici cui elargiva favori c’era Morgante che infatti l’anno dopo, nel 2012, per essere promosso da caporedattore a vice direttore della Tgr si rivolse a lui il quale, non per generosità ma pro domo sua, andò oltre, grazie anche a congiunture favorevoli come l’avvento di Luigi Gubitosi (vedremo in seguito un passaggio fondamentale) a capo della Rai: ed eccolo direttore.

Morgante si riteneva certo della mia condanna penale: per lui un esito già scritto. Lo comprendo pienamente ed anzi mi chiedo: perché non avrebbe dovuto nutrire tale certezza? Dubbi possono esservene sempre ma qui, prima e meglio di ogni risposta teorica, ci sovviene tutto ciò che in questa ormai più che decennale vicenda, dovunque ci fosse un’autorità giudiziaria di mezzo, è avvenuto prima della sentenza dello scorso anno di assoluzione nei miei confronti. E’ la lunga storia della persecuzione intentata contro di me da Morgante attraverso tutti i suoi apparati di potere: prima la Rai che dirigenti corrotti hanno schierato sui suoi loschi interessi; poi magistrati funzionali agli affari di Morgante&Montante. Un tratto illuminante della lunga vicenda è tratteggiato nel post con cui il 29 giugno scorso ho riferito della sentenza di assoluzione  (clicca qui) e tre giorni dopo dopo in quello in cui ho risposto alle tante domande che tra diverse attestazioni di solidarietà mi sono state poste (clicca qui)

E qui prima di tornare al processo per calunnia nei miei confronti appena conclusosi, è utile fare una digressione sugli altri procedimenti giudiziari, tutti arrivati all’esito predestinato quando Montante era ancora ben saldo nelle sue posizioni di potere, e ovviamente lo era anche Morgante, al vertice della testata giornalistica più grande d’Europa – finanziata dai cittadini contribuenti, ricchi e poveri nella stessa misura – dove il primo l’aveva piazzato.

I procedimenti sono diversi e accenno ai più importanti.

Sul piano civile, per esigenze di sintesi, mi limito alla controversia di lavoro avente ad oggetto la legittimità o meno del licenziamento, e ciò solo per trovarvi la prova di quella sicurezza riposta da Morgante anche nella mia condanna penale, dopo tutto quanto era riuscito a scaraventare contro di me: tale condanna infatti sarebbe giunta a conclusione di tutto, sigillo e trofeo della sua schiacciante prova di forza e della sua vendetta e punizione esemplari contro di me, ‘colpevole’ – richiamando l’attenzione della redazione prima e dei vertici Rai poi sulla qualità del prodotto e sui doveri del Servizio pubblico – di averlo disturbato nei suoi affari e nelle sue trame.

La causa di lavoro si svolge velocemente perché il rito Fornero, entrato in vigore l’anno prima, detta tempi rigorosi in caso di licenziamento, nonostante introduca una doppia fase ed una doppia decisione in primo grado: un giudizio a cognizione sommaria prima di quello normale con piena facoltà istruttoria.

A dicembre 2013 propongo ricorso contro il licenziamento. A marzo 2014 c’è già il primo pronunciamento con ordinanza del Giudice del lavoro; a luglio 2014 la sentenza che chiude il primo grado di giudizio, ad aprile 2015 la sentenza d’appello, nel 2016 quella della Corte di Cassazione.

Per dare un’idea di cosa muova, cosa ispiri e cosa determini questa sequenza di decisioni dell’Autorità giudiziaria in sede civile, tutte di conferma della legittimità del licenziamento, e per comprendere il perché della certezza che Morgante ripone anche sulla mia condanna penale, ecco qualche dato eloquente.

I pronunciamenti giudiziali di merito che attestano la legittimità del licenziamento sono un’aberrazione logica e giuridica, in diritto e in fatto.

Ad esempio: è sempre rigettata ogni mia richiesta di mezzi istruttori.

E’ omesso ogni esame sui punti decisivi: nessun testimone viene mai ascoltato.

E’ accolta senza alcuna verifica la tesi della Rai, sicché viene qualificata come prestazione di lavoro (ancorché gratuita, occasionale e del tutto estemporanea) resa ad un’impresa concorrente quella che invece, palesemente, è solo un’opinione da me espressa, come intervistato, nella veste di cittadino e nell’esercizio di un diritto costituzionale: sarebbe bastato vedere la registrazione ma non viene ammessa.

E’ ignorato il movente ritorsivo dettagliatamente documentato e che invano chiedo di provare indicando numerosi testimoni i quali potrebbero dimostrare che quel movente in realtà è l’unico fondante il licenziamento, peraltro preannunciato incautamente da Morgante ben prima che io “commettessi” i fatti per i quali vengo licenziato.

E’ ignorata una fiorente casistica, dettagliatamente documentata, di palese discriminazione e disparità di trattamento da parte della Rai tra il mio caso e quello di tanti altri giornalisti dipendenti, addirittura in qualche caso ospiti della stessa trasmissione e della stessa tv privata.

E’ ignorata la mancanza, nel procedimento di licenziamento, della proposta del direttore della testata, condizione ineludibile, a pena di nullità, secondo una costante giurisprudenza della Cassazione per la quale non può essere l’editore, né il capo del personale, senza la proposta del direttore della testata necessariamente giornalista, a licenziare un giornalista, iscritto in quanto tale all’Albo professionale. Quel direttore di testata si rifiuta di avallare il mio licenziamento e pochi mesi dopo si dimette (fatto rarissimo in Rai) per motivi personali.

E’ ignorata la mancata comunicazione del provvedimento al Cdr (Comitato di redazione, ovvero l’organismo di rappresentanza sindacale aziendale), fatto che secondo giurisprudenza, ne comporta l’inefficacia.

E’ ignorato – e non mi è consentito di provare – che la Rai da sempre conosca (ed abbia quindi tacitamente autorizzato) la mia normale partecipazione alla vita politica, sociale e culturale, anche attraverso opinioni espresse in interviste rilasciate a tv locali e che quindi ci sia stato un legittimo affidamento da parte mia su un’autorizzazione tacita mai revocata (e tale revoca mai comunicatami) prima della contestazione posta a base del licenziamento.

E’ ignorato dal Tribunale e dalla Corte d’Appello che – anche a prescindere da tale legittimo affidamento e dal movente ritorsivo come unica vera causa del licenziamento – il codice di disciplina aziendale applicabile e applicato prevede la sanzione della multa pari a due ore di retribuzione in caso di “intervista non autorizzata” che è l’unica fattispecie riferibile al mio caso, mentre non ha alcun legame né attinenza con la realtà (infatti è solo un imbroglio ordito dolosamente dall’azienda e incredibilmente avallato in giudizio) avere qualificato come prestazione professionale resa a impresa concorrente il mio comportamento o la mia attività consistenti unicamente nell’avere espresso un’opinione, da cittadino intervistato e da ospite!

Si aggiunga che per qualificare come prestazione di lavoro giornalistico ciò che invece è semplice libera espressione di un’opinione resa nella veste di cittadino, il Tribunale di Roma afferma che Il ricorrente partecipò a trasmissioni televisive commentando temi politici di attualità all’interno di programmi di natura informativa. Il ricorrente svolgeva pertanto attività propriamente giornalistica nell’ambito di tali programmi …..”. (!). Come dire che chi è giornalista ogni volta che parla, per ciò solo, fornisce una prestazione professionale a chi ascolta! Peraltro a supporto di questa bizzarra argomentazione (purtroppo ignorata e quindi tacitamente confermata dalla Corte d’Appello) il Tribunale cita poche righe di una sentenza della Cassazione  (…Costituisce infatti attività giornalistica la prestazione di lavoro intellettuale diretta alla raccolta, commento ed elaborazione di notizie volte a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, ponendosi il giornalista quale mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso, con il compito di acquisire la conoscenza dell’evento, valutarne la rilevanza in relazione ai destinatari e confezionare il messaggio con apporto soggettivo e creativo….. (Cass. Sent. n. 17723 del 29.8.2011)….ma si dimentica di citare e valutare anche le righe che seguono immediatamente nello stesso brano della stessa sentenza: al fine dell’individuazione dell’attività giornalistica assumono poi rilievo la continuità o la periodicità del servizio, del programma o della testata nel cui ambito il lavoro è utilizzato, nonché l’inserimento continuativo nell’organizzazione dell’impresa. Elementi questi (continuità, periodicità, inserimento continuativo) la cui totale mancanza nel caso in oggetto esclude radicalmente ogni possibilità che la mia sia stata una prestazione di lavoro giornalistico!

Viene ignorato che il regolamento di disciplina aziendale applicato al mio caso, mentre all’art. 6 consente il licenziamento per “grave inadempimento contrattuale” (articolo in forza del quale sono licenziato), all’art. 5 – quindi nell’articolo immediatamente precedente – in caso di “gravi inadempimenti contrattuali” consente soltanto l’irrogazione di una sospensione da 7 a 10 giorni! In nessun passo delle sentenze è mai chiarito perché io abbia commesso, se mai per assurdo l’abbia commesso, “grave inadempimento degli obblighi contrattuali” (ciò che consente il licenziamento) e non “gravi inadempimenti degli obblighi contrattuali” (ciò che consente solo la sospensione da 7 a 10 giorni).

Magari sarò stato “sfortunato” se la sentenza di primo grado è stata definita da un giudice, Maria Antonia Garzia, rientrata appena un anno prima in magistratura dopo 14 anni consecutivamente fuori ruolo, fino a due anni prima vice capo di gabinetto (rapporto meramente fiduciario) della presidente della Regione Lazio Renata Polverini; e se nel collegio della Corte d’Appello – misteriosamente modificato per due terzi tra la prima e la seconda udienza e poi ancora per un terzo prima della successiva, decisiva – ho trovato, proprio per effetto di quest’ultimo cambiamento, Sergio Gallo, ex capo di gabinetto del sindaco di Roma Alemanno (anche in questo caso rapporto puramente fiduciario) e noto per essere, secondo quanto accertato in un processo dal Tribunale di Roma, il giudice a disposizione della cosiddetta P3 per “aggiustare” (o tentare di farlo) alcuni processi, grazie ad una rete di contatti con alti magistrati fino all’ora primo presidente della Corte di Cassazione Vincenzo Carbone.

La P3 è nota anche come “lobby di Cervinara, il piccolo centro dell’Avellinese in cui sono nati e/o vivono appunto il giudice Sergio Gallo, Marco Mario Milanese ex tenente della Guardia di Finanza coinvolto in vicende di corruzione, e Pasquale Lombardi, il presunto capo di questa associazione per delinquere. Della P3 facevano parte, sempre secondo l’accusa, anche, tra gli altri, Flavio Carboni, Arcangelo Martino, Marcello Dell’Utri, Nicola Cosentino, Denis Verdini.

Entrambi i magistrati (Garzia, giudice monocratico in primo grado; Sergio Gallo intervenuto, nella terza e decisiva udienza, dopo uno strumentale rinvio nella seconda, a comporre il collegio della Corte d’Appello) hanno in comune di essere stati a lungo, per molti anni fino a poco tempo prima delle due rispettive sentenze che mi riguardano, fuori dai ruoli della magistratura e di avere scelto di assumere incarichi, numerosi e in serie, di collaborazione fiduciaria con soggetti politici. Incarichi molto ben remunerati, anche per sei o sette volte rispetto a quelli delle rispettive posizioni di magistrato. Gallo, come capo di gabinetto del sindaco di Roma Alemanno, percepiva uno stipendio annuo di € 664.000,00 oltre agli emolumenti per varie cariche ricoperte in enti e società partecipate ed oltre al trattamento economico di magistrato che, nel caso di collocamento fuori ruolo, si aggiunge.

Garzia, come vice capo di gabinetto del presidente della Regione Lazio Polverini, percepiva uno stipendio di € 181.694,21, oltre allo stipendio di magistrato e in quel periodo ha sommato anche un’altra attività fuori ruolo, in seno all’Agcom (Autorità garante delle comunicazioni) dove dal 2008 al 2013 ha sviluppato una carriera parallela con cumulo di mansioni di vertice, solitamente retribuite dai 200 ai 300 mila euro annui, a volte in palese conflitto di interessi: come quando, in seguito ad un ricorso al tribunale del lavoro da parte delle rappresentanze sindacali aziendali dell’Agcom contro trattamenti economici eccedenti riservati ad alcuni tra cui proprio la Garzia, è stata questa a rappresentare l’ente in giudizio peraltro dinanzi alla sezione lavoro del Tribunale di Roma in cui in precedenza prestava servizio come magistrato giudicante e in cui, in tempo per pronunciarsi sul mio licenziamento Rai, sarebbe tornata! O come quando ha assunto in Agcom tra i tanti incarichi anche l’interim della responsabilità Risorse umane senza alcuna autorizzazione da parte del Consiglio superiore della magistratura ma solo sulla base di un atto dell’Agcom supportato da un parere reso da lei stessa: fatto senza precedenti per il Csm, come rilevato in diverse interrogazioni parlamentari che hanno affrontato il caso anomalo in cui si è trovato questo magistrato.

Ciò che qui preme rilevare è che i due magistrati negli ultimi dieci-quindici anni erano stati quasi esclusivamente fuori ruolo ed erano passati da un incarico all’altro, sempre di nomina politica e a carattere fiduciario. Garzia, per esempio, ininterrottamente fuori ruolo dal primo febbraio 1999 fino al 2013, dopo essere stata applicata alla segreteria del Csm, è passata dal gabinetto e dalla segreteria di quattro ministri di tre diversi governi (Prestigiacomo, Melandri, Carfagna, Meloni) e da altri incarichi in enti vari come Unar (l’Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale presso la presidenza del Consiglio dei ministri), Agcom ecc.

Sergio Gallo, il giudice della “P3”, da sempre militante in Magistratura Indipendente in cui ha ricoperto anche incarichi direttivi di rilievo nazionale,  ha fatto parte del consiglio d’amministrazione della fondazione “Nuova Italia” di Gianni Alemanno (ex ministro ed ex sindaco di Roma), è stato componente del collegio dei probiviri del Pdl, è stato consigliere d’amministrazione di Roma Metropolitane spa, del Teatro lirico dell’Opera e di altre partecipate. Come capo di gabinetto del sindaco di Roma percepì un compenso di € 298.324,63 nette (€ 664.000,00 lorde), pari (peraltro aggiuntivo allo stipendio di magistrato) a quattro volte quello del suo predecessore. Dopo essersi dimesso da capo di gabinetto del sindaco di Roma fu nominato dall’allora presidente della Camera Fini nell’Autorità di vigilanza sugli appalti, carica, prima di semplice componente e poi di vicepresidente, ricoperta fino al 2014.

Gallo, come magistrato, inoltre è famoso per avere con una singolare sentenza reintegrato nel consiglio regionale della Campania Roberto Conte, condannato a quattro anni per concorso esterno in associazione camorristica e per avere scelto personalmente, nell’ufficio di gabinetto del sindaco di Roma Alemanno tra i propri collaboratori, un tale Giorgio Magliocca arrestato per camorra proprio mentre era in servizio in Campidoglio e in precedenza vincitore di un concorso interno (con una prova strana oggetto di dubbi e contestazioni) di cui Gallo era stato l’ispiratore.

Agli atti del processo alla P3 c’è l’affermazione “Sergio Gallo l’ho creato io” da parte del presunto capo di questa associazione per delinquere alla sbarra, Pasquale Lombardi il quale, intercettato, con argomenti convincenti ne rivendicava la totale disponibilità!

Tutto ciò solo per dire che mentre da una parte mi ritrovavo con due sentenze assurde, inspiegabili logicamente e giuridicamente, dall’altra ho dovuto prendere atto che esse sono state emesse da giudici che per oltre un decennio erano passati da una segreteria politica all’altra ricevendo incarichi molto lautamente retribuiti (cui non erano certamente insensibili, diversamente si sarebbero accontentati del solo stipendio di magistrati) per i quali avevano da essere molto grati ai loro danti causa.

La Corte di Cassazione ottiene la conferma del licenziamento rigettando invece per improcedibilità il mio ricorso contro la sentenza d’appello, con la motivazione che non avrei allegato copia del contratto collettivo nazionale di lavoro, documento che, se preso in considerazione, mai e poi mai avrebbe potuto giustificare il licenziamento, perfino nella falsa narrazione che ne faceva la Rai. Ma era falso che il contratto non ci fosse. C’era, come ho dimostrato (era perfino elencato nel foliario con tanto di timbro della stessa Corte di Cassazione) promuovendo un ulteriore ricorso per revocazione basato sull’errore decisivo compiuto dalla Corte quando si era sbagliata (!) nel ‘rilevare’ che la copia del contratto non ci fosse. Tutto chiarito quindi? Nient’affatto! La Corte dichiara inammissibile il mio ricorso per revocazione perché, sostiene, se anche il contratto c’era, l’errore non è decisivo. E invece lo era, eccome!

A dire il vero ho presentato un ulteriore ricorso straordinario in Cassazione ex art. 111 della Costituzione: anche questo dichiarato inammissibile.

Ora torniamo alla concreta esperienza dei procedimenti penali, in cerca di ulteriori elementi utili a spiegare quella sicurezza riposta da Morgante sulla mia condanna per calunnia.

Innanzitutto c’è da rilevare che proprio il mio esposto, poi divenuto ‘corpo del reato’ di calunnia di cui sono stato accusato, conteneva elementi che l’autorità giudiziaria avrebbe dovuto vagliare attraverso proprie indagini e verifiche in cerca di eventuali reati commessi da dirigenti Rai e/o altri. E invece da una parte ha tralasciato, omesso, ignorato, neutralizzato, travisato, distorto – di quanto contenuto nell’esposto – tutto ciò che avrebbe potuto configurare e prospettare ipotesi di questo tipo e, dall’altra, quella stessa autorità giudiziaria ha preso per verità assoluta – facendone ‘copia e incolla’ sui propri atti – quel misto di falsità, travisamenti, mistificazioni, imbrogli, trucchetti orditi dall’Auditing Rai. Tutto ciò per pervenire puntualmente all’archiviazione dei procedimenti nei quali io e il Servizio pubblico eravamo parte lesa, mentre dirigenti infedeli ed eventuali altri soggetti avrebbero dovuto essere chiamati a rispondere.

Tre archiviazioni – di altrettanti procedimenti, scaturiti dal mio esposto – tutte negli anni del potere indiscusso di Montante&Morgante e dell’influenza del primo su procure, tribunali e ambienti giudiziari rappresentano il primo dato da tenere presente.

Io non mi arrendo e più volte presento alla Procura di Palermo istanze di riapertura indagini puntualmente respinte e, quando sono più fortunato, il procedimento aperto in accoglimento di quella mia istanza viene successivamente archiviato. Tale ‘fortuna’, per la cronaca, dopo tante richieste respinte, mi capita una sola volta, nel momento in cui mi rivolgo al procuratore aggiunto che guida il gruppo dei pubblici ministeri preposti ai reati contro la pubblica amministrazione, Bernardo Petralia, più di recente e fino a due giorni fa capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ma a fronte del suo sì, un altro pm mise ugualmente fine al procedimento.

La linea della Procura di Palermo, sin da quando il 27 luglio 2011 Morgante vi deposita la querela per calunnia nei miei confronti, appare chiara e predeterminata pregiudizialmente, al di sopra e in contrasto con ogni evidenza documentale: archiviare ciò che suona come accusa a Morgante nonché a suoi sostenitori e fiancheggiatori, processare Di Natale per calunnia. Pubblico ministero procedente è la magistrata di Favara Laura Vaccaro, in quel momento sostituto procuratore che chiede l’archiviazione per Morgante e il rinvio a giudizio nei miei confronti; poi – a luglio 2014 – promossa procuratore presso il Tribunale dei minori di Caltanissetta, quindi, a ottobre 2020, rientrata a Palermo con i gradi di ‘aggiunto’, ovvero quel gruppo ristretto di vertice dei magistrati inquirenti che sta subito sotto il procuratore capo e ben al di sopra dei tanti ‘sostituti’.

Sulla scrivania di Vaccaro finiscono tutti i miei esposti: il primo del 2011 usato contro di me; un altro del 2012; altri tre nel 2013 e un quarto ancora nel 2014. Tutti archiviati su richiesta di Laura Vaccaro. Ma tra tutte le richieste, occorre focalizzare quella principale, avente ad oggetto l’esposto del 2011.

Illuminante è quanto accade il 19 marzo 2013. In quel momento peraltro è in corsa la macchina del licenziamento contro di me, lanciata per volere di Morgante da Luigi Gubitosi, il capo azienda che a Morgante non può dire di no perché egli gli ha presentato, con tutta l’influenza dei loro ottimi rapporti (entrambi sodali di Montante)  Giuseppe Pignatone, allora capo della procura di Roma dove era aperto un fascicolo contro decine di dirigenti Rai che percepivano somme indebite (cioè rubavano) falsificando i dati di servizio: la sorte di questi indagati, anzi di qualcuna di loro, stava molto a cuore al manager il quale sperava ardentemente in un’archiviazione. Speranza esaudita dall’ufficio capeggiato da un magistrato così alto, tanto alto che, anni dopo, appena costretto alla pensione dallo Stato italiano, viene messo a capo del Tribunale dello Stato Città del Vaticano. Nel cui perimetro, mentre il loro comune amico Montante è in carcere, può ritrovare Vincenzo Morgante, a capo della Tv dei vescovi.

Dopo questa digressione utile a datare la sequenza degli eventi, torniamo a quanto accade il 19 marzo 2013.

Alle 15.29 (almeno questo è l’orario di inizio verbalizzazione) Laura Vaccaro riceve nel suo ufficio Morgante che deposita un documento poi assunto agli atti e contenente sue dichiarazioni in gran parte false e calunniose nei miei confronti. Subito dopo il pm dispone lo stralcio del doppio procedimento allora in vita: quello in cui indagato è Morgante e io sono parte offesa e l’altro in cui le parti sono invertite. Vaccaro decide di fatto in quel momento, in pratica appena Morgante esce dalla stanza, di chiedere l’archiviazione del primo e di mandare avanti il secondo chiedendo che io venga processato. E lo fa in totale dispregio dei dati, anche documentali, di realtà.

Faccio un esempio, tra i tanti possibili. L’esposto poi ‘corpo del reato’ di calunnia che io avrei commesso si compone di due parti ben chiare e distinte: la prima riguarda il prodotto di Tgr Sicilia e i tanti servizi inquinati da interessi privati; la seconda la gestione discriminatoria della redazione consistente nel modus operandi di Morgante che premia e gratifica coloro che assecondano le sue malefatte e punisce, vessa, perseguita i giornalisti non disponibili ad assecondarlo sempre e comunque. In questa seconda parte l’esposto, solo a titolo di esempio del ben più vasto e sistematico fenomeno denunciato, illustra quattro vicende precise, riguardanti altrettanti giornalisti di Tgr Sicilia. Giornalisti mai ascoltati (anche previo rifiuto da parte degli Auditors della loro esplicita richiesta) nell’Auditing aziendale nel quale invece la Rai sente solo Morgante e giornalisti suoi amici e da lui indicati. E fino a quel momento, incredibilmente, non ascoltati neanche dalla Procura che pure chiede il rinvio a giudizio nei miei confronti per la falsità addirittura calunniosa del racconto di quelle quattro vicende.

In effetti, successivamente, la Procura corre – o fa finta di correre – ai ripari, ascoltando tra il 29 giugno e il 2 luglio 2013 (dopo che io sono stato nel frattempo licenziato) quei quattro giornalisti. I quali, come documentano i verbali, non solo confermano punto per punto quanto da me scritto nell’esposto, ma raccontano ulteriori fatti ben più gravi che avrebbero probabilmente meritato considerazione e approfondimento anche in quell’altro procedimento di cui frettolosamente il pm, un minuto dopo avere incontrato Morgante, chiede l’archiviazione.

Ho usato l’espressione dualistica ‘corre o finge di correre ai ripari’ perché in effetti quei quattro verbali vengono totalmente ignorati, sia dal Pm che chiede l’archiviazione per Morgante e il rinvio a giudizio per me, sia dal Gip che accoglie l’una e l’altro. Ed è quasi comico che, per esempio in relazione alla seconda parte dell’esposto, sia il Pm che il Gip fondino le proprie determinazioni sulla risultata infondatezza delle mie denunce in quanto i vari giornalisti ascoltati non l’avrebbero confermata. Ma a non confermarla erano quelli sentiti dalla Rai nell’Auditing-farsa e che nulla c’entravano con la conoscenza dei fatti, mentre sia il magistrato inquirente che quello giudicante operano questo singolare travisamento e ignorano totalmente i verbali dei quattro giornalisti finalmente ascoltati tra il 29 giugno e il 2 luglio 2013. Di quanto avrebbero dichiarato loro alla pm nulla interessava visto che lei alle sue conclusioni aveva deciso di pervenire tre mesi e mezzo prima, il 19 marzo, folgorata dall’incontro con Morgante. Il perché nello stesso ‘infortunio’ incorra il Gip può essere materia di varie spiegazioni e di mille congetture. Per coglierne la gravità, è come se – facciamo un esempio – dinanzi alla denuncia da parte di un testimone di fatti che potrebbero essere altrettanti reati, commessi contro quattro vittime, l’autorità giudiziaria al fine di accertarli, anziché interrogare le vittime o anche le vittime, ascoltasse solo gli amici degli autori o presunti autori del reato e, dinanzi alla mancata conferma, concludesse che è tutto falso e provvedesse ad incriminare il testimone che invece aveva esattamente raccontato il vero.

In ogni caso, ben oltre l’episodio ricostruito, va considerato che sull’intera materia processuale, basata sull’esposto del 2011 nella sua interezza (anche la prima parte sulla qualità del prodotto Tgr Sicilia e le tante commistioni di interessi privati) la Procura si limita a prendere per verità rivelata quel miscuglio di menzogne e omissioni servito dall’Auditing Rai, senza alcun vaglio critico né accertamento, pur nell’evidente falsità di tanti dati e, con questi ingredienti, punta a cucinare il piatto finale della mia condanna.

Stesso cammino segnato per gli altri quattro esposti, da me presentati nel 2012, 2013 e 2014 per informare l’autorità giudiziaria degli sviluppi successivi ai fatti denunciati nel primo. Finiscono sul tavolo dello stesso pm e trovano medesima sorte.

In quegli anni Morgante, spalleggiato da Montante, non ha dubbi sull’esito finale. Del resto ha potuto disporre della Rai e di tutte le posizioni di vertice di cui aveva bisogno (direttore generale Luigi Gubitosi, direttore Risorse umane Luciano Flussi, direttore Internal Auditing Marco Zuppi) per farsi assolvere da tutte le malefatte e fare licenziare me, colpevole solo di fare il mio dovere secondo tutte le norme: giuridiche, deontologiche e aziendali, a cominciare dal Codice etico Rai.

Grazie alle armi di Montante, Morgante confida nel pieno compiersi delle sue aspettative anche in sede giudiziaria. E ciò avviene attraverso l’archiviazione di tutti i procedimenti che lo vedono indagato e attraverso il rinvio a giudizio del sottoscritto. Se quelle archiviazioni sono una pietra tombale a protezione e sigillo esemplare della sua forza intoccabile, sull’altro fronte, contro di me, non basta certo disporre il processo: esso deve essere celebrato.

E qui Morgante forse inciampa nella prima sua previsione: che io – buttato fuori dalla Rai, schiacciato da un peso di violenza incontrastabile, isolato, emarginato, sotto processo per calunnia – possa puntare su qualche rito alternativo per limitare i danni e consegnarmi al destino da lui tracciato. Previsione – la sua – sbagliata.

Pur sapendo, innanzitutto per mia scelta pregiudiziale e mai derogabile, di potere disporre solo di me stesso e di nessuno, neanche in milionesima parte, dei suoi mezzi di navigato trafficante di influenze e di potere, entro nel processo ordinario, deciso a far valere gli elementi di verità fino a quel momento offuscati, ignorati, travisati, traditi, ribaltati e falsificati.

Forse mi aiuta la fortuna che si materializza nelle fattezze di un giudice senza preconcetti, che – osservo via via – vuole conoscere, esaminare, verificare, capire, toccare con mano le prove fornite dall’una e dall’altra parte.

In ogni caso in un dibattimento processuale è molto più difficile, rispetto ad una fase di indagini preliminari ed anche rispetto al processo civile, ignorare i fatti o sfuggire ad un loro esame in un contradditorio vero, effettivo. E così, udienza dopo udienza, finalmente la verità dei fatti irrompe sulla scena. E mentre l’imputato formale sono io, accade che, nella sostanza, l’esame di quei fatti, a poco a poco, con anni di ritardo faccia finalmente apparire – se mi è consentita questa trasposizione logica – Morgante, il mio accusatore, come l’imputato reale.

Peraltro quel giudice (Tribunale in composizione monocratica), evidentemente mosso dall’intento di capire fino in fondo, si mostra abbastanza disponibile ad estendere l’istruttoria dibattimentale ben al di là dei confini rigidi del capo d’imputazione. Io quel campo avrei voluto allargarlo il più possibile, proprio per fare emergere tutti i fatti, anche collaterali, utili comunque a disvelare la verità piena dell’intera vicenda. Diverse mie richieste (come quella di una perizia su cosa sia informazione e cosa pubblicità) non sono accolte, ma gran parte lo sono e ciò fa sì che per la prima volta, dopo le tante sedi giudiziarie precedenti in cui i fatti sono stati tenuti fuori dalla porta, io mi trovi finalmente dinanzi ad un processo vero.

E questa sensazione da un certo momento in poi, sicuramente un po’ più tardi rispetto alla mia stante la sua granitica pregiudiziale certezza, l’avrà avuta anche Morgante. Dal quale per esempio, appunto da un certo momento in poi, mi giungono messaggi indiretti sulla sua disponibilità a rimettere la querela nei miei confronti. Messaggi che, ovviamente, non prendo in considerazione, anche perché mai avrei accettato una remissione, deciso a pretendere una verità giudiziale, in un processo peraltro, sì scaturito dalla querela di Morgante ma nel quale ero accusato di un reato perseguibile d’ufficio. Perciò fin dall’inizio avevo scelto il rito ordinario, nonostante da ambienti in contatto con il mio querelante venisse accreditata, con tanto di consigli per il ‘mio bene’, l’idea (che mai per una frazione di secondo è entrata nella mia testa) che io dovessi scegliere un rito alternativo, il cui esito – sapevo bene – avrebbe giovato al mio persecutore e non certo alla verità.

La sensazione che quello fosse, finalmente, un processo vero ad un certo punto raggiunge anche Morgante che all’improvviso sparisce fisicamente da quell’aula giudiziaria che prima aveva sempre presidiato ad ogni udienza, senza mai mancare un minuto, sempre seduto di fronte alla sedia dei testimoni, molti dei quali erano – per usare una sua espressione – ‘suoi dipendenti’, ovvero giornalisti o altre figure professionali della Tgr, dei quali quindi egli era, si sentiva – e soprattutto operava come –  il capo assoluto.

In effetti non credo sia stata quella sensazione ad averlo fatto fuggire dal processo. Anzi sinceramente non credo che, solo per quella sensazione, ciò sarebbe mai avvenuto.

Lui scompare solo dopo un fatto preciso: quando la divulgazione pubblica del file excel contenente l’archivio segreto di Antonio Calogero Montante in seguito al suo arresto, il 13 maggio 2018, rivela il tenore dei rapporti tra i due, tra pranzi, cene, incontri conviviali con varie personalità anche della magistratura (per esempio il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone), richieste di favori come quella per la promozione in Rai, in una frequentazione assidua che prosegue ben oltre il momento in cui diventa noto a tutti che Montante non è l’imprenditore antimafia che ha fatto credere ma, al contrario, un impostore accusato, sulla base di numerosi riscontri vagliati da magistrati onesti e coraggiosi, proprio di essere mafioso.

In quello stesso periodo Morgante esce dalla Rai e trova rifugio nella Tv dei vescovi della quale è ancora oggi direttore: certo fa riflettere che Morgante, sodale di Montante ai cui interessi ha asservito il ruolo di caporedattore prima e di direttore Tgr poi, appena ciò diventa pubblico non possa stare in Rai dove pure c’è un verminaio occupato in molti posti di potere da loschi figuri, ma possa ‘degnamente’ dirigere la Tv della Cei, la conferenza episcopale italiana.

Ma torniamo al nostro tema, il giudizio penale per calunnia contro di me e l’uscita fisica di Morgante dalla scena del processo. Da quel momento certamente egli capisce che il giudizio stia andando diversamente da come lo aveva immaginato. E ciò non solo per il successivo esito di assoluzione nei miei confronti, ma proprio perché l’esame dei fatti, a prescindere dalla sentenza, lo ha reso ‘imputato’ sostanziale, al centro delle mille trame in precedenza sempre oscurate, mentre le accuse nei miei confronti perdevano sempre più consistenza e si rivelavano per ciò che erano: una calunnia di cui io ero vittima, dentro la macchinazione ordita da Morgante, prima dentro la Rai e poi fuori, nelle aule giudiziarie, attraverso i preziosi servizi del ‘Sistema Montante’.

E’ probabile che Morgante in ogni caso, anche quando ha dovuto prendere atto che almeno quello fosse un processo vero, confidasse in un’exit strategy a lui più che gradita: la prescrizione che a fine 2018, sette anni e mezzo dopo la commissione del supposto reato, sarebbe intervenuta. Uno stop al processo per prescrizione nulla avrebbe tolto, se non la sua soddisfazione personale per la mia condanna della quale prima era certo, al suo disegno di vendetta, di sottrazione alle sue responsabilità e di mistificazione dei fatti. E in ultima istanza credo che egli confidasse nel compimento di questa ineluttabile scadenza. Che non gli avrebbe impedito di poter dire: ‘Di Natale è un calunniatore ma è stato salvato dalla prescrizione’.

Sin dall’inizio io avevo deciso di rinunciare, non solo e non tanto per gli eventuali benefici morali di una sentenza che mi assolvesse pienamente ma anche perché, per principio, credo che la necessità di giustizia debba prevalere sulle pur legittime esigenze di breve durata dei processi. E ho sempre pensato, detto e scritto che l’unica soluzione possibile sia di concludere i processi in tempi ragionevoli e non buttarli al macero perchè si è consentito che scadesse il tempo.

Non so se Morgante s’aspettasse la mia rinuncia alla prescrizione. In ogni caso questa mia scelta – sempre, per quanto mi riguarda, obbligata e inderogabile – gli ha tolto l’ultima chanche.

A quel punto, dopo una sentenza emessa all’esito di una lunga istruttoria dibattimentale finalmente centrata sui fatti, non avevo dubbi che Morgante mai e poi mai l’avrebbe impugnata. La realtà era finalmente apparsa sulla scena, la verità era stata acclarata grazie a quello che ho definito il mio ‘giudice a Berlino’ e smontarla sarebbe stato veramente difficile, perfino se, in ipotesi, le armi del mio persecutore fossero rimaste quelle potentissime – in dote a Montante – degli anni precedenti, fino al 2017 certamente.

Ecco il perché della mia prima previsione.

Altrettanto sicuro ero anche della seconda, pur in teoria azzardata e in contrasto con la casistica della realtà: il mancato appello da parte del pubblico ministero.

Qui devo fare ricorso ai fatti, ma anche alla mia lettura soggettiva di essi e alle mie sensazioni.

I fatti che qui rilevano sono quelli in parte richiamati poc’anzi e riassunti nell’episodio del 19 marzo 2013 quando il pubblico ministero riceve nel suo ufficio Morgante.

In ogni caso, ben oltre l’episodio ricostruito, va considerato che sull’intera materia processuale, quindi l’esposto nella sua interezza (anche la prima parte sulla qualità del prodotto Tgr Sicilia e sulle tante commistioni di interessi privati) la Procura si limita a prendere per verità rivelata quel miscuglio di falsità servito dall’Auditing Rai, senza alcun vaglio critico, né accertamento o verifica, pur nell’evidente falsità di tanti dati e, con questi ingredienti, punta a cucinare il piatto finale della mia condanna.

E’ così che quel pm procedente nel 2013 chiede il rinvio a giudizio.

Ecco perché, quando nel frattempo Vaccaro non è a Palermo, promossa a procuratore a Caltanissetta presso il Tribunale dei minori, tutti i pm che si avvicendano in udienza  – ben sette negli oltre cinque anni di dibattimento – continuano a sostenere l’accusa seguendo sempre la stessa linea, quasi non fossero interessati alle emergenze istruttorie che via via travolgano l’ipotesi di partenza, fino all’atto finale della richiesta di condanna, oggettivamente estranea e in contrasto con quanto emerso dal processo.

La mia sensazione è che quella richiesta di condanna, contro l’evidenza di tutti i dati probatori, fosse l’ultimo atto di un filone d’impegno che doveva giungere fino a quel punto.

Fino a quel punto ma non oltre. Perché – è sempre la mia sensazione – fino a quel punto era tutto già scritto nel progetto iniziale e doveva comunque giungere a conclusione. Oltre tale punto sarebbe comunque stata una scelta nuova, quindi da calibrare sulla mutata realtà, sia degli elementi processuali finalmente illuminati dall’istruttoria dibattimentale, sia degli attori in campo. E qualcuno, dei più importanti, si era perso per strada.

Perciò ero sicuro che non solo Morgante, ma neanche il Pm, irritualmente, avrebbe proposto appello.  E così è stato.