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La signora Alberti bocciata per il Quirinale, il signor Casellati e il coro mediatico fermo come un disco rotto alla società patriarcale. L’abbiamo scampata grossa

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Elisabetta Alberti, da sempre in Forza Italia, contro la legge sull’aborto, la fecondazione eterologa e le unioni civili; a favore della riapertura delle case chiuse per la prostituzione femminile; artefice della difesa d’ufficio televisiva della tesi Ruby nipote di Mubarak; sempre su voli di Stato per andare da casa al Senato e in vacanza in Costa Smeralda; si ricorda anche per avere assunto la figlia al ministero alla Salute quando vi si insediò come sottosegretaria nel governo Berlusconi

Il ‘romanzo quirinale’ è fitto di centinaia di capitoli e migliaia di pieghe, sfumature, retroscena.

Ma quando esso volge al termine con la rielezione di Mattarella all’ottava votazione, tra i tanti frame che ancora ne intessono la trama, facciamo un passo indietro e soffermiamoci su quelli offerti ieri mattina dalla quinta votazione: fumata nera con lo schianto di Elisabetta Alberti, candidata del centrodestra, scesa molto al di sotto degli stessi voti di schierameno e politicamente sfregiata nella sua identità istituzionale di seconda carica dello Stato.

Ma qui il tema è un altro. Con 382 voti il suo è risultato il nome più votato.

Il suo?

In effetti quello scritto sulle schede elettorali, quello letto dal presidente della Camera Fico e quello detto, scritto – e ripetuto migliaia di volte senza eccezione alcuna – da qualunque giornale, tv, radio, sito on line, giornalista, speaker, politico, commentatore, attivista o agit prop – non è il suo.

La signora che presiede il Senato, in Forza Italia dalla prima ora e da sempre berlusconiana fedelissima e devota, si chiama Elisabetta Alberti. Chiunque, nello spazio pubblico della cittadinanza e delle sue regole che alimentano l’anagrafe italiana, per qualunque ragione la voglia identificare, deve fare riferimento a quel nome e a quel cognome.

Poi, nella vita, come capita a tante persone, la signora Alberti è sposata (status temporaneo, ma nulla cambierebbe se, com’era fino a 52 anni fa, fosse giuridicamente permanente) con un signore, che si chiama Casellati (Giambattista), è avvocato e, ovviamente, nulla c’entra con l’attività politica e gli incarichi istituzionali del coniuge.

Vero è che la legge italiana, art. 143 bis del codice civile, consente alla donna (retaggio di un modello patriarcale superato dalla riforma del diritto di famiglia del ’75 e a cui prima o poi la Corte Costituzionale dovrà mettere mano) di aggiungere – non sostituire – al proprio cognome quello del marito, ma ciò solo nelle sue relazioni sociali in quanto ad ogni effetto giuridico l’unico cognome corrispondente alla propria identità rimane il suo che infatti è il solo riportato nella carta d’identità.

Ancora più netta ed estrema la condizione nella quale una donna assuma cariche pubbliche, addirittura istituzionali, nelle quali non può che essere la sua identità individuale, fonte anche della sua responsabilità, l’unico elemento, formale e sostanziale, che la identifichi costituendone la percezione giuridico-politica collettiva e perciò ne fornisca l’unico nome e cognome possibile – il suo – rendendo quel retaggio normativo (<<… la moglie aggiunge ….>>) del tutto incompatibile – oltre che retrivo, patriarcale e offensivo della parità di genere – con qualsivoglia uso (anche in aggiunta) nell’appellare una figura nello spazio pubblico, in questo caso addirittura titolare di un’altissima carica dello Stato.

Nell’Italia del 2022, 52 anni dopo l’introduzione della legge sul divorzio e 47 anni dopo la riforma del diritto di famiglia, il problema non è dato dalla scelta bizzarra della signora Alberti di farsi chiamare, nell’esercizio delle funzioni di seconda carica dello Stato nonchè candidata alla prima, con un cognome che non è il suo (come la signora Brichetto, alias Moratti, ex ministra e assessore regionale della Lombardia in carica, o come la signora Garnero, senatrice della Repubblica in carica, ex moglie del signor Santanchè) ma dalla naturalezza con cui tutti – proprio tutti, nessuno escluso, giornalisti soprattutto – si prestino a questo copione triste, anacronistico, figlio di un sistema nel quale la donna era un essere inferiore secondo le norme correlate – cancellate da oltre 40 anni – sull’adulterio, sul delitto d’onore, e del vecchio diritto di famiglia.

Visto che quest’articolo ha finito per parlare in gran parte della presidente del Senato che ha rischiato (forse poco, ma sicuramente più di Berlusconi) di diventare capo dello Stato, oltre a quanto già detto, aggiungiamo le seguenti notizie, anche per rinfrescare la memoria ai distratti o per informare i più giovani.

Elisabetta Alberti, in Forza Italia fin dalla sua fondazione nel ’94, è senatrice dal 2001, con una parentesi nel Consiglio superiore della magistratura, ed è stata sottosegretaria alla Salute e alla Giustiziaa nei governi Berlusconi.

Gli atti prodotti? Si ricordano l’assunzione della figlia nel ministero alla Salute appena vi si insediò come sottosegretario, nonchè il suo intervento, quale sottosegretaria alla Giustizia forte anche delle competenze di avvocato, l’11 aprile 2011 in tv a Otto e Mezzo su La7 per sostenere con ardore e convinzione che, veramente, Ruby era la nipote di Mubarak.

Alberti (noi la chiamiano così, per il rispetto dovuto a lei, al sig. Casellati e a tutti i cittadini nei loro rapporti con le cariche dello Stato) purtroppo il 5 aprile 2011 non aveva potuto firmare, nè votare la mozione approvata con 314 voti dalla Camera contenente la tesi che mirava a sottrarre al Tribunale di Milano il procedimento penale contro Berlusconi in relazione alle vicende di sfruttamento della prostituzione minorile e degli abusi commessi in occasione del prelievo-truffa di quella ragazza dalla Questura per affidarla al clan di Nicole Minetti. Alberti non votò quella mozione perchè era senatrice, e non deputata della Camera. Ma di firme ne avrebbe apposte, e di voti ne avrebbe dati, anche più d’uno come dimostrò chiaramente pochi giorni dopo in quell’appassionata difesa d’ufficio televisiva.

Per il resto Elisabetta Alberti, politica e giurista, si segnala per le seguenti performances: essere stata l’11 marzo 2013 tra i manifestanti e gli occupanti del tribunale di Milano, ‘colpevole di avere disposto la visita fiscale nei confronti dell’imputato Berlusconi, mentre vi si svolgeva un’udienza del processo Ruby; avere assunto iniziative politiche e legislative per l’abrogazione della legge 194 sull’aborto; contro la legge sulla fecondazione eterologa; contro la legge sulle unioni civili; in favore della riapertura delle ‘case chiuse’ per l’esercizio della prostituzione femminile. Infine, da presidente del Senato, Alberti ha fatto un uso e un abuso abnormi dei voli di Stato per andare da Roma a casa sua, in Veneto, e viceversa, e – in estate – tra Roma e la Costa Smeralda.

Molte persone, in questo dibattito sull’elezizone del presidente della Repubblica, hanno giustamente invocato un presidente finalmente donna.

Per il momento, in attesa di una donna dotata dei requisiti etico politici sufficienti per la carica – necessari in entrambi i generi e quali che siano il sesso, l’identità e l’orientamento sessuali di candidati ed eletti – rallegriamoci di averla scampata grossa.